Così nel 1927-50 il Paese fu diviso dal conflitto tra nazionalisti e maoisti
Il Giornale, 2 marzo 2020 |
di Rino Cammilleri
L’ultimo imperatore cinese, come raccontato nel film di Bernardo Bertolucci del 1987, non era che un bambino di cinque anni di nome Aisin Gioro Pu Yi quando fu detronizzato dalla Rivoluzione Hsinhai nel 1911. L'anno dopo, Sun Yatsen proclamava la Repubblica. Il suo partito, Kuomintang, aveva però un'ala sinistra, comunista e capeggiata da Mao Tsetung, che aveva come riferimento Lenin. Ben presto i rapporti tra i due si fecero tesi, anche perché urgeva la modernizzazione a tappe forzate dell'immenso Paese di Mezzo e Sun Yatsen guardava a Occidente (cioè all'Intesa, negli anni della Grande Guerra). Quando a Sun Yatsen succedette Chiang Kai-shek la rottura con Mao divenne plateale. Così, sul finire degli anni Venti la guerra civile fu inevitabile. I dettagli li racconta Alberto Rosselli in La lunga guerra fratricida. La rivoluzione in Cina 1927-1950 (Fede & Cultura). Si procedette all'orientale, cioè con stermini reciproci. Ma Mao aveva alle spalle Mosca e questa lo rimpinzò di mitragliatrici, aerei, mortai. Il risultato fu il caos, del quale approfittò il vicino Giappone, che si impadronì di larghi tratti della costa.
A quel punto i due contendenti cinesi, i nazionalisti e i comunisti, si unirono contro lo straniero e la guerra all'invasore andò avanti fino a quando quest'ultimo non venne piegato dagli americani. Finita la tregua, Chiang e Mao ricominciarono a darsele di santa ragione. Ma adesso i comunisti potevano contare su Stalin e i suoi rifornimenti continui: armi e equipaggiamenti sottratti ai giapponesi. Nel 1948, forti di 1,5 milioni di soldati, 700mila guerriglieri fiancheggiatori, 23mila tra cannoni e mortai, i comunisti dilagarono, avvantaggiati dall'assoluto disprezzo per ogni legge di guerra: i prigionieri venivano fatti fuori, così da non dover provvedere al loro mantenimento.
Gli ex alleati occidentali abbandonarono i nazionalisti al loro destino. Il 15 gennaio 1949 risposero picche a una richiesta di mediazione avanzata da Chiang Kaishek. Così i 250mila nazionalisti di Pechino si arresero e nel 1950 tutta la Cina era in mano ai comunisti. Il grosso dell'esercito nazionalista riuscì a rifugiarsi nell'isola di Formosa (Taiwan). Scoppiata di lì a poco la guerra di Corea, la Cia appoggiò la formazione di un Corpo Giovanile di Salvezza Anticomunista, che impensierì i maoisti per diversi anni ancora tramite rapidi colpi di mano. Dal canto suo, Chiang Kaishek non cessò mai di chiedere l'appoggio degli americani. Ma fu Nixon ad accorgersi che la situazione era ormai irreversibile. Anche il Tibet ebbe la sua resistenza, che continuò in una lotta senza speranza fino al 1974. Il Dalai Lama ordinò la resa, ma molti preferirono suicidarsi. L'ultimo a cadere fu il tenente Gyato Wangdu, annientato con i suoi (pochi) uomini in un'imboscata sul confine col Nepal.
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Gli ex alleati occidentali abbandonarono i nazionalisti al loro destino. Il 15 gennaio 1949 risposero picche a una richiesta di mediazione avanzata da Chiang Kaishek. Così i 250mila nazionalisti di Pechino si arresero e nel 1950 tutta la Cina era in mano ai comunisti. Il grosso dell'esercito nazionalista riuscì a rifugiarsi nell'isola di Formosa (Taiwan). Scoppiata di lì a poco la guerra di Corea, la Cia appoggiò la formazione di un Corpo Giovanile di Salvezza Anticomunista, che impensierì i maoisti per diversi anni ancora tramite rapidi colpi di mano. Dal canto suo, Chiang Kaishek non cessò mai di chiedere l'appoggio degli americani. Ma fu Nixon ad accorgersi che la situazione era ormai irreversibile. Anche il Tibet ebbe la sua resistenza, che continuò in una lotta senza speranza fino al 1974. Il Dalai Lama ordinò la resa, ma molti preferirono suicidarsi. L'ultimo a cadere fu il tenente Gyato Wangdu, annientato con i suoi (pochi) uomini in un'imboscata sul confine col Nepal.
Articolo di Rino Cammilleri da il Giornale, 2 marzo 2020
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