di Mons. Gino Oliosi (esorcista)
La memoria del bimbo nel presepe è all’origine della sua presenza sacramentale da risorto oggi nella Confessione, Comunione, Carità natalizie e dell’attesa del suo ritorno glorioso alla fine dei tempi
La memoria richiamata nel bimbo del presepe è all’origine della sua presenza sacramentale di crocefisso risorto nella Confessione, Comunione e Carità natalizia, nell’attesa del suo ritorno glorioso alla fine di questo mondo e della storia umana con il solo futuro di chi ha posto fiducia nella verità e nell’amore con la sola forza della verità e dell’amore. Il Bimbo nel presepe è davvero il Figlio di Dio, il Figlio del Padre nello Spirito Santo in un volto umano verginalmente concepito e partorito in Maria. Dio, unico nel suo essere, non è una solitudine perenne, ma, un circolo d’amore nel reciproco darsi e ridonarsi, Egli è il Padre, Figlio e Spirito Santo. E immagine di Lui è ad iniziare l’uomo e la donna nella loro reciprocità di amore.
Ancora di più: in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, Dio stesso, Dio da Dio come Verbo del Padre nello Spirito santo, si è fatto uomo, ha assunto come Persona e natura divina anche un volto umano. A Lui il Padre dice: “Tu sei mio figlio”. L’eterno oggi di Dio è disceso nell’oggi effimero del mondo e trascina il nostro oggi temporale, passeggero nell’oggi perenne di Dio. Dio è così grande che può farsi piccolo. Dio è così potente che può farsi inerme e venirci incontro come bimbo indifeso, affinché noi possiamo amarlo. Dio è così buono da rinunciare al suo splendore divino e discendere nella stalla, affinché noi possiamo trovarlo e perché la sua bontà tocchi anche noi, si comunichi oggi eucaristicamente a noi e continui ad operare nell’amore per nostro tramite. Questo nella Confessione, nella Comunione, in gesti di Carità è Natale: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”. Dio è diventato uno di noi, affinché noi potessimo essere perdonati con Lui, diventare simili a lui nell’amore. Ha scelto all’origine dell’incarnazione come suo segno sacramentale il Bimbo nel presepe e oggi la particola: Egli è oggi sacramentalmente così ma verrà glorioso. In questo modo impariamo a conoscerlo, ad amarlo a servirlo. E su ogni bambino con cui Lui si è unito rifulge qualcosa del raggio di quell’oggi, della vicinanza di Dio che dobbiamo amare e alla quale dobbiamo sottometterci nel suo essere dono unico e irripetibile – su ogni bambino, anche su quello non ancora nato per cui la castità ci impedisce di profanare la sessualità fuori del matrimonio e disgiungerla dall’apertura alla fecondità.
Ascoltiamo una seconda parola della liturgia di questa Notte santa, questa volta presa dal libro del profeta Isaia: “Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (9,1). La parola “luce” pervade tutta la liturgia di questa Santa Messa. È accennata nuovamente nel brano tratto dalla lettera di san Paolo a Tito: “È apparsa la grazia” (2,11). L’espressione “è apparsa” appartiene al linguaggio greco e, in questo contesto, dice la stessa cosa che l’ebraico esprime con le parole “una luce rifulse”: l’”apparizione” – l’”epifania” – è l’irruzione della luce divina nel mondo pieno di buio e pieno di problemi irrisolti. Infine, il Vangelo ci racconta che ai pastori apparve la gloria di Dio e “li avvolse di luce” sui loro problemi (Lc 2,9). Dove compare la gloria cioè la verità e l’amore di Dio, là si diffonde nel mondo la luce. “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre”, ci dice san Giovanni (1 Gv 1,5). La luce è fonte della vita.
Ma luce significa soprattutto conoscenza, significa verità col buio della menzogna e dell’ignoranza: Così la luce ci fa vivere, significa anche amore. Dove c’è amore, emerge una luce nel mondo; dove c’è odio, il mondo è nel buio. Sì’, nella stalla di Betlemme è appara la grande luce che il mondo attende. In quel Bimbo giacente nella stalla, Dio mostra la sua gloria – la gloria della verità e dell’amore, che dà in dono sé stesso e che si priva di ogni grandezza per condurci sulla via dell’amore. La luce di Betlemme non si è mai più spenta. Lungo tutti i secoli ha toccato e tocca uomini e donne, “li ha avvolti di luce”. Dove è spuntata la fede in quel Bambino, lì è sbocciata anche la carità – la bontà verso gli altri, l’attenzione premurosa per i deboli ed i sofferenti, soprattutto la grazia del perdono. A partire da Betlemme una sola luce, di amore, di verità pervade i secoli. Se guardiamo ai santi- da Paolo ad Agostino fino a san Francesco e a Santa Teresa di Calcutta – vediamo questa corrente di bontà, questa via di luce che, sempre di nuovo, si infiamma al mistero di Betlemme, a quel Dio che si è fatto Bambino. Contro la violenza di questo mondo Dio oppone, in quel Bambino, la sua bontà e ci chiama a seguire il Bambino.
Il vero mistero del Natale è lo splendore interiore che viene a questo Bambino nei segni dell’Albero e del Presepe. Lasciamo che tale splendore interiore si comunichi a noi, che accenda nel nostro cuore la fiammella della bontà di Dio in noi; portiamo tutti, col nostro amore, la luce nel mondo! Non permettiamo che questa fiamma luminosa accesa nella fede si spenga per le correnti fredde del nostro tempo nonostante tante luminosità esterne! Custodiamola fedelmente nella Confessione e nella Comunione facciamone dono agli altri! In questa notte, nella quale guardiamo verso Betlemme, vogliamo anche pregare in modo speciale per il luogo della nascita del nastro Redentore e per gli uomini che là vivono e soffrono. Vogliamo pregare per la pace in terra Santa e nel Mondo. Guarda Signore, quest’angolo della terra che, come tua patria, ti è tanto caro! Fa che lì rifulga la tua luce! Fa’ che lì arrivi la vera pace più forte di quella del terrore che oggi ogni guerra nucleare è rischio della fine del mondo, di tutti!
Con il termine “pace” siamo giunti alla terza parola-guida della liturgia di questa Notte santa. Il Bambino che Isaia annuncia da lui chiamato “Principe della pace”. Del suo regno si dice: “La pace non avrà mai fine”. Ai pastori si annuncia nel Vangelo la “gloria di Dio nel più alto dei cieli” e la “pace in terra…”. Una volta si leggeva e si diceva giustamente: “...agli uomini di buona volontà” che consentono a Dio di far giungere il suo amore fino al perdono; nella nuova traduzione si dice: “…agli uomini che egli ama”. Che significa questo cambiamento? Non conta forse più la buona volontà perché fa tutto Dio? Poniamo meglio la domanda: Quali sono gli uomini che Dio ama, e perché li ma? Dio è forse parziale? Ama forse soltanto alcuni e abbandona gli altri a sé stessi? Il Vangelo risponde a queste domande mostrandoci alcune precise persone amate da Dio. Ci son persone singole -Maria, Giuseppe, Elisabetta, Zaccaria, Simeone, Anna ecc. Ma ci sono anche due gruppi di persone: i poveri pastori e i sapienti dell’Oriente, i così detti re magi. Soffermiamoci in questa notte su pastori. Che specie i uomini sono? Nel loro ambiente i pastori erano disprezzati; erano ritenuti poco affidabili soprattutto con pecore nere e, in tribunale, non venivano ammessi come testimoni. Ma chi erano in realtà? Certamente non erano grandi santi, se con questo termine si intendono persone di virtù eroiche. Erano anime semplici. Il Vangelo mette in luce una caratteristica che poi, nelle parole di Gesù, avrà un ruolo importante: erano persone vigilanti! Questo vale dapprima nel senso esteriore: di notte vegliavano vicino alle loro pecore. Ma vale anche in senso più profondo: erano disponibili per la parola di Dio, per l’Annuncio dell’Angelo come Maria e Giuseppe. La loro vita non erta chiusa in sé stessa; il loro cuore era aperto. In qualche modo, nel più profondo, erano in attesa di qualche cosa, in attesa finalmente dell’amore di Dio per accoglierlo. La loro vigilanza era disponibilità originaria in ogni uomo senza della quale l’amore di Dio non può arrivare – disponibilità ad ascoltare cioè a congiungere all’udire l’obbedire, disponibilità ad incamminarsi; era attesa della luce che indicasse loro la via. È questo che a Dio interessa. Egli ama tutti perché tutti sono creature sue, anche peccatori. Ma alcune persone hanno chiuso la loro anima; il suo amore non trova presso di loro nessun accesso. Essi credono di non aver bisogno di Dio; non lo vogliono nel loro libero arbitrio. Altri che forse moralmente sono ugualmente miseri e peccatori, almeno soffrono di questo. Essi attendono Dio. Sanno di aver bisogno della sua bontà, anche se non ne hanno un’idea precisa. Nel loro animo aperto all’attesa la luce di Dio può entrare, e con essa il suo amore fino al perdono e quindi la sua pace. Dio cerca persone che portino e comunichino il suo amore, la sua pace. Chiediamogli di far sì che non trovi chiuso il nostro cuore alla missione. Facciamo in grado di rafforzare la nostra fede donandola.
Tra i cristiani la parola pace ha poi assunto un significato tutto speciale: è diventata una parola per desinare la comunione nell’Eucaristia. In essa è presente la pace di Cristo. Attraverso tutti i luoghi dove si celebra l’Eucaristia una rete di pace si espande sul mondo intero. Le comunità raccolte intorno all’Eucaristia costituiscono un regno della pace come il mondo. Quando celebriamo l’Eucaristia coi troviamo a Betlemme, nella “casa del pace”. Cristo si dona a noi e ci dona con ciò la sua pace. Ce la dona perché noi portiamo la luce della pace nel nostro intimo e la comunichiamo agli altri; perché diventiamo operatori di pace e contribuiamo anche politicamente alla pace nel mondo. Perciò preghiamo: Signore, compi la tua promessa! Fa’ (e la nostra preghiera rende possibile a Dio di operare con gli uomini dal libero arbitrio) che là dove c’è discordia nasca la pace! Fa che emerga l’amore là dove regna l’odio! Fa’ che sorga la luce dove dominano le tenebre! Facci diventare portatori della tua pace!
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