di Aldo Maria Valli
Robert Hugh Benson. Sacerdote, scrittore, apologeta. La biografia (Fede & Cultura, 208 pagine, 22 euro) di Luca Fumagalli, massimo esperto di Benson in Italia e studioso del cattolicesimo britannico, è un libro istruttivo e prezioso, che offre innumerevoli spunti di riflessione. Un lavoro che non solo ci racconta la vita e l’opera dell’autore de Il padrone del mondo, L’alba di tutto, Il trionfo del re e tantissimi altri libri, ma ci aiuta a entrare nell’Inghilterra di fine Ottocento e dei primi del Novecento e soprattutto nell’Inghilterra cattolica, sopravvissuta a più di tre secoli di persecuzione e finalmente in grado, anche sulla scorta delle conversioni di Newman e Manning, di assumere un ruolo di primo piano sotto il profilo religioso e culturale.
Quarto e ultimo figlio di Edward White Benson, arcivescovo di Canterbury e quindi massima autorità della Chiesa d’Inghilterra, Hugh (nato il 18 novembre 1871) diventa a sua volta pastore e parroco anglicano, ma, al contrario del padre, la fede in cui è nato e cresciuto non lo appaga mai del tutto. Due questioni lo assillano: dov’è la verità? E qual è la vera Chiesa? In quegli anni alcuni esponenti della Chiesa anglicana e della Chiesa cattolica fanno qualche tentativo di avvicinamento, ma da Roma il papa Leone XIII chiude la porta e con l’Apostolicae curae condanna come totalmente invalide le ordinazioni sacerdotali e vescovili anglicane.
Nello stesso anno dell’altolà di papa Leone, 1896, muore Benson padre, temutissimo dai figli. Per Hugh si apre una fase nuova. Con mamma e sorella parte per un viaggio. Vanno in Egitto e lì il giovane sacerdote anglicano scopre ciò che, in fondo al cuore, forse aveva sempre sospettato, ovvero che la Chiesa d’Inghilterra, al di fuori di Albione, non esiste. Si imbatte in un’umile chiesetta cattolica e avverte che è la Chiesa di Roma la vera Chiesa universale. E che i “papisti”, lungi dall’essere traditori, sono i veri eredi della Chiesa voluta da Gesù.
Continua a lavorare come pastore, ma non si sente a posto. La sua vera passione è la scrittura, e poi c’è sempre la questione della vera Chiesa. Fa un’esperienza monastica, ma non trova la pace. La Chiesa anglicana è un mosaico pieno di contraddizioni, la Chiesa di Roma invece, riunita attorno al sommo pontefice, è unità dottrinale e coerenza. Dirà: “Vedevo la Chiesa d’Inghilterra, vecchia padrona amorevole e bonaria, in atto di trattenermi al suo servizio per mezzo di tutti i vincoli umani; di contro ad essa, vedevo sfolgorante di luce la Chiesa di Roma, la Sposa di Cristo, dominatrice e autoritaria sì, ma con negli occhi e sulle labbra uno sguardo e un sorriso tanto radiosi che solo potevano riflettere una visione celeste”.
L’11 settembre 1903 nella sala capitolare di Woodchester Hugh lascia per sempre l’anglicanesimo ed è accolto nella Chiesa cattolica. Vale per lui un famoso aforisma di Newman: “Sapevo che la Chiesa cattolica era la vera Chiesa, ma non sapevo assolutamente di saperlo”. L’anno dopo diventerà sacerdote cattolico, un sacerdote alquanto atipico, che non vorrà mai diventare parroco e sarà quasi schiavo di una passione trascinante per la scrittura, una vena che non si esaurirà mai e lo farà diventare un autentico stakanovista della scrittura, anche per necessità economiche.
Il merito di Fumagalli è di non aver fabbricato un “santino” di Robert Hugh Benson. Il biografo, anzi, mostra tutti i limiti (religiosi, caratteriali, artistici) di un autore che comunque in vita ebbe un successo straordinario, sia come romanziere, sia come conferenziere e predicatore (e pensare che era timido e soffriva di una leggera balbuzie).
La morte coglierà Hugh nel 1914, a soli quarantatré anni, e sarà causata anche da ritmi di vita impossibili: ore e ore dedicate alla scrittura e a rispondere alle lettere che gli arrivavano senza sosta. Con la sensibilità attuale i suoi lavori, il cui filo conduttore è l’apologia del cattolicesimo, possono sembrare segnati da una certa ripetitività e da debole o scarso approfondimento teologico. I suoi personaggi, inoltre, appaiono spesso delineati con scarsa incisività sotto il profilo psicologico. Fumagalli è il primo a riconoscere che Benson, obbligato a scrivere per far quadrare i conti, produsse troppi romanzi perché tutti potessero risultare di buona qualità. In ogni caso all’epoca di Benson gli editori facevano a gara per pubblicarlo e non c’era casa cattolica, in Inghilterra, sui cui scaffali non ci fosse almeno una sua opera. Anche grazie a lui i “papisti” inglesi presero coraggio e si sottrassero a una condizione di inferiorità.
Da buon inglese di quel tempo, il reverendo Benson si interesserò anche allo spiritismo, con un romanzo, The Necromancers (I necromanti), che mise a tema l’inconciliabilità di fede religiosa e magia. Eppure Benson, pur considerando lo spiritismo “un pericolo mortale”, credeva negli spiriti. Da giovane, ai tempi di Cambridge, era appassionato di fantasmi e d’altro canto proveniva da una famiglia che era immersa nello spiritismo, al punto che il padre di Hugh era stato tra i fondatori, proprio a Cambridge, della Ghost Society, una sorta di associazione di acchiappafantasmi accademici.
Quello che è il romanzo più noto di Benson, Il padrone del mondo, è una distopia sorprendente, se si pensa che fu pubblicato nel 1907. L’autore immagina un mondo futuro segnato non tanto dai problemi emergenti in quell’epoca, quali le tensioni fra nazionalismi (che porteranno alla prima guerra mondiale) e il sorgere del socialismo, ma dall’imporsi di un unico potere mondiale e di un unico pensiero che vede nel cristianesimo e nella Chiesa cattolica il nemico da colpire. Il manipolatore, inizialmente occulto, non è un politico esaltato o un dittatore feroce, ma un certo Giuliano Felsemburgh che sembra la bontà in persona. È l’uomo del dialogo, dell’umanitarismo, della fratellanza universale. Ma si dà il caso che sia anche l’Anticristo. Ce n’è abbastanza per sostenere a buon diritto che il timido Benson è stato, dopo tutto, lungimirante.
Per farsi perdonare dai cattolici rimasti scioccati da Il padrine del mondo, Hugh produsse poi L’alba di tutto, nel quale immaginò un mondo futuro (attorno al 1973) quasi interamente cattolico, con la Chiesa riconosciuta come autorità morale superiore. Il romanzo, annota Fumagalli, ha l’aria di “un saggio sotto mentite spoglie” e risulta a tratti pesante, ma è un caso più unico che raro di utopia cattolica.
“Indubitabilmente aveva grandi talenti” scrisse il Times nel necrologio di Benson. E forse, anche se lui era convinto del contrario, fu ancora più grande dal pulpito che con la penna in mano. “Come predicatore – fu scritto di lui – era la personificazione dell’amore di Dio… I suoi sermoni erano per gli ascoltatori un piacere. Era capace di farli interessare perché lui stesso era interessato; predicava di fare il bene non solo a ciascuno dei presenti, ma anche a Robert Hugh Benson in persona”.
Strenuo difensore della Chiesa cattolica, come solo i convertiti sanno esserlo, Benson ovviamente è stato a lungo trascurato nell’epoca dell’ecumenismo trionfante e dell’esaltazione del dialogo. Come se di lui ci si dovesse vergognare. Ma è tempo di riscoprirlo.
L’epitaffio sulla lapide della sua tomba, nell’amatissima residenza di Hare Street, contiene tutto ciò che per lui contò: “Hic jacet / Robertus Hugo Benson / Sacerdos Catholicae / Et Romanae Ecclesiae / Peccator Expectans Ad(ventum) / Revelationem Filiorum Dei” (“Qui giace Robert Hugh Benson, sacerdote della Chiesa cattolica e romana, peccatore che attende la rivelazione dei figli di Dio”).
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