San Filippo Neri a Napoli

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di Emilio Biagini
Ecco una ben documentata opera storica che ripercorre il sorgere dell’Oratorio filippino di Napoli e dei suoi contrasti con la casa madre di Roma, e nel fare ciò illumina il carattere del fondatore e la natura della vocazione filippina, com’è proprio delle monografie storiche di eccellenza, le quali non si limitano ad un tema ristretto, ma ampiamente illuminano l’epoca oggetto dei loro studi e le personalità che vi agirono.
San Filippo Neri appare essere stato uno spirito poco dedito al raziocinio. Le sue scelte si basavano su stati d’animo. Il suo giudizio restava sospeso, non come lo sospendevano i
vecchi scettici come Pirrone di Elide o come i tristi e penosi relativisti di oggi, ma come i santi che cercano la volontà di Dio. Esprimeva la sua volontà, ma si rimetteva poi a quella degli altri: agiva in tal modo per rispetto verso i confratelli, ma anche per incertezza. Aveva il carisma della semplicità: restituì a S. Ignazio il suo libretto della Esercizi spirituali, dicendogli che erano troppo complicati per lui. La semplicità è propria dei piccoli: “In verità, in verità vi dico: se non diverrete come questi piccoli non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18, 2). San Carlo Borromeo gli domandò come mai era obbedito sempre prontamente, ed egli rispose: “Perché do pochissimi ordini”.
Nel formulare la sua idea di Congregazione, pare abbia subito l’influenza dalla comunità di Tor de’ Specchi, fondata da Santa Francesca Romana nel 1433, formata non da monache ma da Oblate benedettine che non formulavano voti e non vivevano in clausura ma vivevano assieme, affiliate al monastero di Santa Maria Nuova, col privilegio dell’indipendenza dalla giurisdizione dell’abate. Appena ordinato sacerdote, nel 1551, il Santo si trasferì a San Girolamo della Carità, dove, nell’intimità della sua camera, iniziò con i suoi penitenti incontri di direzione spirituale ed altri esercizi devoti. L’Oratorio non nacque come istituzione, ma come sviluppo dell’indirizzo spirituale di singoli, e quasi inavvertitamente divenne anche un incontro comunitario e familiare. Si leggevano testi della Sacra Scrittura non per farne oggetto di analisi erudita, ma perché la meditazione della Parola di Dio diventasse vita, a somiglianza del terzo gradino della “scala monastica”,
A questo proposito, vale la pena di ricordare l’epistola di Guigo Certosino, del sec. XII, dal titolo Scala Paradisi o Scala Claustralium, sive de modo orandi: un documento di tale importanza che fu per un certo tempo attribuito a S. Agostino. La Scala del Paradiso prevedeva quattro gradini: lectio, ossia un attento esame del testo, ascoltato e riascoltato fino ad impararlo a memoria; oratio, con la quale si sentiva il sapore della lettura e si chiedeva la grazia di poter comprendere la Parola; meditatio, con la quale si “masticava” il testo, ruminandolo e “digerendolo”. La Parola di Dio, infatti, è cibo dell’anima, cibo vivo e divino che opera in modo autonomo nell’animo umano; perciò non ha nulla a che fare con ciò che intendiamo oggi per “meditazione”; non era l’uomo a meditare, al contrario la meditazione monastica era un abbandono alla Parola di Dio. Infine veniva la pura contemplatio della parola divina. Nonostante che la Congregazione non fosse un ordine monastico, è evidente che, per divina ispirazione, la Scala del Paradiso era aperta agli oratoriani, sotto la guida del loro Santo. A ventinove anni, nel 1544, presso le catacombe di San Sebastiano, San Filippo Neri sperimentò l’estasi della transverberazione, e possiamo quindi esser certi che in quella scala arrivò alla vetta.
La consacrazione della propria vita a Dio sull’esempio di San Filippo richiede una vocazione specifica, che implica la perseveranza per tutta la vita, senza formalità, giuramenti o promesse, come si assumono privatamente i consigli evangelici di fronte a Dio. L’apprendimento e la conformazione dello stile di vita avviene per sistema induttivo, basato sulla pratica della vita vissuta. “La carità è la sola regola”, rispose il Santo ad un certosino che gli chiedeva quale fossero le regole della sua Congregazione. Divenuto rettore della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, nel 1564, vi diede inizio alla vita comunitaria. Nel 1577 l’Oratorio si trasferì alla Vallicella.
L’oratoriano Padre Francesco Tarugi, abile diplomatico, andò a Napoli per ragioni di salute (sciatica) e lì si adoperò per l’apertura di un Oratorio dopo che gli venne richiesto dai napoletani, entusiasti della sua predicazione. Cesare Baronio, chiamato dux verbi per la sua eloquenza, autore della Latina Istoria Ecclesiastica, si recò a sua volta a Napoli, inviato dal papa. Avevano a cuore la fondazione di Napoli anche Padre Bordini e Padre Antonio Talpa. Importante, ai fini della vicenda napoletana, fu la connessione coi Teatini, fondati da San Gaetano Thiene nel 1524 e precursori del Concilio di Trento. Alessandro Borla, confessore di Orsola Benincasa, un oratoriano concesso in prestito all’arcivescovo di Napoli che era teatino, fu il legame di conoscenza e di ospitalità che legò l’ordine teatino agli oratoriani. Anche i teatini favorivano la fondazione di un Oratorio a Napoli.
La presenza oratoriana a Napoli divenne stabile, a partire dal 1586, per decreto della Congregazione della Vallicella, con san Filippo riluttante in rassegnazione disapprovatrice. Si preoccupava del rischio che Napoli risucchiasse le energie di Roma, ma soprattutto temeva il posibile trasformarsi della Congregazione in Ordine religioso, mentre la sua idea di Congregazione era un semplice gruppo di preti secolari, tenuti insieme solo dalla carità volontaria. Profonda quindi era la diversità dell’obbedienza filippina da quella di Ordine.
I napoletani volevano assolutamente l’Oratorio e facevano pressione sulla Congregazione; fu comprato a suo nome e senza il suo consenso un palazzo davanti al duomo, il Tarugi che era stato richiamato a Roma dal Santo e ne era sollevato, non ebbe più esitazioni e si unì agli sforzi per convincere San Filippo, il cui motto avrebbe potuto essere: “Non sono d’accordo ma mi adeguo”. Egli non nascondeva la sua amarezza, mentre si domandava se questa era davvero la volontà di Dio. Dovendo rispondere alle interpellanze dei suoi secondo il regime democratico, espose le sue ragioni in contrario ma si rimise alla maggioranza. L’unico paletto che mise fu che i membri dell’Oratorio fossero liberi dai voti religiosi, altrimenti la Congregazione sarebbe divenuta un Ordine simile agli altri.
I palermitani, attratti dall’esempio edificante di Roma e di Napoli, chiesero l’affiliazione della propria casa al pari di quella di Napoli. La richiesta fu soddisfatta solo dopo la morte di San Filippo, quando si regolarizzarono le case esistenti istituendole in Congregazioni a somiglianza di quella romana. La bolla del papa per Palermo è del 10 ottobre 1597.
La prima stesura delle Costituzioni, risalente al 1583, fu opera degli otto padri più anziani, provenienti dall’originaria esperienza di San Giovanni dei Fiorentini. Quasi subito, per iniziativa di Padre Talpa, emerse la difformità tra le due case. Il Talpa voleva la rinuncia dei beni e una veste chiusa sul davanti come una tonaca monacale, mentre il Santo la voleva aperta. A Roma l’appellativo per gli oratoriani era il comune “messere”, mentre a Napoli si preferiva “padre”, a somiglianza degli Ordini religiosi. A Roma la disciplina era mantenuta per amore, a Napoli esisteva vigilanza e controllo del superiore con limitazione della libertà personale. A Roma la Congregazione non si interessava degli affari personali ed economici dei membri, mentre a Napoli i membri erano sottoposti al controllo del superiore nello svolgimento di incarichi interni ed esterni. A Roma continuava il metodo della primigenia comunità di San Girolamo della Carità, basato sull’adesione libera. A Napoli nessuno doveva possedere alcunchè di proprio, ma ciascuno riceveva la mobilia della camera, i libri, gli abiti, che restavano di proprietà comune. La proprietà privata degli oratoriani fu difesa da San Filippo con grande vigore, non volendo che la Congregazione vivesse di elemosina; al primo posto per lui veniva la libertà personale di ogni membro; alla Vallicella i padri si limitavano a versare periodicamente il loro contributo alle spese comuni, mentre gestivano privatamente il proprio patrimonio personale.
Non era solo questione di temperamenti diversi, ma anche di oggettive differenze sociali. A Roma abbondavano preti e laici colti relativamente pronti ad entrare nell’Oratorio, ciò che permetteva un’accoglienza graduale e un discernimento vocazionale dei più giovani, che venivano accettati solo a 18 anni compiuti, mentre a Napoli occorreva formare i nuovi ingressi con un vero noviziato in sede separata, accettando anche cadidati di 16 anni. Per comprendere le relazioni e le tensioni tra i due Oratori va considerato che era un’epoca di missive portate da messaggeri a cavallo i quali, fra Roma e Napoli, impiegavano due giorni per il viaggio, mentre in carrozza tre o quattro, con strade in condizioni scadenti e barriere doganali che ritardavano i trasporti. Incertezza e carenti comunicazioni davano facilmente adito a sospetti. Comunque, il continuo scambio epistolare permise alla casa di Roma di mantenere il controllo fino alla separazione definitiva. Tra le due sedi vi era un intenso scambio epistolare, carico di tensione. Talpa fu visto stracciare lettere di San Filippo. Anche la pazienza del Tarugi era messa a dura prova. In un documento segreto in cui enumera le disubbidienze dei napoletani, San Filippo esclude il Talpa e il Bordini dalla successione alla carica di Preposito, dichiarando inabile a comandare chi non sa ubbidire.
Del 1588 è la seconda stesura delle Costituzioni, generalmente approvata, sebbene San Filippo non ne desiderasse l’approvazione durante la sua vita; voleva lasciare ai confratelli ancora spazio per eventuali cambiamenti. L’approvazione pontificia fu ritardata anche dalla morte di Sisto V. La codificazione definitiva delle Costituzioni si basò sulla stesura del 1588, con solo leggere modifiche, e ricevette la conferma apostolica il 24 febbraio 1612 con la bolla di Papa Paolo V Christifidelium quorumlibet.
Dal 1595, anno dell’ascesa al cielo del Santo Fondatore, al 1612, quando gli oratoriani completarono l’elaborazione delle Costituzioni, non ebbero vere e proprie discussioni tra loro, ma si limitavano a chiedersi: “Che avrebbe voluto fare Filippo?” Filippo cessò ben presto di essere solo Filippo: l’anno stesso della morte si aprì il processo canonico, il 1600 la ricognizione della spoglie ne rivelò il corpo incorrotto, nel 1615 (a soli 20 anni dal beato transito) la beatificazione, nel 1622 (dopo soli 27 anni dal trapasso) la canonizzazione. Tale era la fama di santità e l’amore che lo circondava.
Il primo battibecco tra Roma e Napoli si ebbe nel 1601. Il clima tra le due fondazioni era compromesso in sfavore di Napoli rispetto alla supremazia romana. La Congregazione napoletana stava costruendo una magnifica chiesa e aveva contratto pesanti debiti per i quali non aveva chiesto a Roma l’autorizzazione, cosa di cui i romani si risentirono. I due stili di vita restarono inconciliabili per l’intransigenza di Padre Talpa che rifiutava ogni suggerimento romano di mitigare la severità del suo governo. Dalla Vallicella mandarono a far le pulci ai napoletani il Padre Bozzuto, il quale asserì che non c’era da far conto delle opinioni della maggior parte dei Padri napoletani, “che son poverelli et non hanno da vivere, et perciò accettano ogni cosa perché fuori della Congregatione non haverebbero altro sostentamento che per via della messa.” Vedessero quelli di Roma come si viveva laggiù, “i sospetti, l’intelligentie, le spie”. Ma anche i romani non si tiravano indietro, quando si trattava di ricorrere a “sospetti, intelligentie, spie”, aizzando l’opposizione interna di Napoli contro Padre Talpa, e discutendo il caso in base a semplici indiscrezioni. Dopo l’apertura dell’archivio segreto della Vallicella è apparso che, sia da una parte che dall’altra, si ricorreva a complicità nascoste e allo spionaggio. La separazione divenne inevitabile, e venne sancita di comune accordo il 29 marzo 1602.
Non per questo cessò il tira e molla, che vide una precaria riunificazione nel febbraio 1607 e una definitiva separazione delle due case imposta per decreto dalla Santa Sede pubblicato il 31 luglio 1612. Visto il pervicace contrasto fra i due litiganti, solo l’intervento della Santa Sede poteva dirimere la questione. La bolla pontificia Christifidelium quorumlibet, del 24 febbraio dello stesso anno, conteneva l’intero testo delle Costituzioni emendate con l’inserzione in appendice le norme e le pratiche dell’Oratorio secolare, conferendo al testo costituzionale la forza dell’inviolabilità. Nel 1615, anno della beatificazione di San Filippo, con breve del 21 ottobre, il Romano Pontefice sanciva che tutte le case che volessero fregiarsi del titolo di Oratorio del Beato Filippo dovevano accettare e osservare le Costituzioni romane del 1612 in tutti gli aspetti che soppiantavano altri ordinamenti.
Il cardinale John Henry Newman, che aveva affinità spirituale con San Filippo Neri, conobbe le varie realtà dell’Oratorio in Italia e, dopo essersi convertito al Cattolicesimo nel 1846, notò la diversità di circostanze in cui si formarono i diversi oratori: ne ricavò la necessità di non temere l’inadeguatezza della realtà locale, ma di adattarvisi e non disperare se le identità delle diverse fondazioni non erano esattamente sovrapponibili, e con questi principi diffuse l’Oratorio in Inghilterra. Lo spirito romano è ben spiegato, a distanza di oltre due secoli rispetto alla vicenda che costituisce l’argomento del presente studio, dal grande oratoriano Newman, con il distacco che viene dalla prospettiva storica e dal punto di vista distaccato di chi proviene da un diverso ambiente: “Lo scopo di San Filippo era di formare i suoi discepoli piuttosto che imporre, affinché (…) le leggi fossero scritte nei loro cuori…”.
Roma, Napoli e Palermo furono le prime tre case storiche. Gli oratoriani vollero per le loro chiese un indirizzo architettonico comune, con impianto basilicale a tre navate, in alternativa al modello controriformato ad aula, recuperando l’antica pianta paleocristiana. Le chiese oratoriane rispondono al programma culturale promosso dalla Congregazione dell’Oratorio, perché la chiesa moderna fosse la rinnovazione di quella antica, dato che proprio allora nasceva l’archeologia cristiana, con lo studio delle catacombe e col recupero di ruderi fino ad allora abbandonati.
La pianta dell’Oratorio proliferò in tutta Italia, Francia, Inghilterra. Il demonio la guardava con odio e invidia, e finalmente trovò nei Savoia i suoi degni strumenti. Le leggi criminali del 1866, che il regime sabaudo approvò sotto il benigno sguardo dei mentori massonici del cosiddetto “risorgimento”, stroncarono, distrussero, dispersero un inestimabile patrimonio spirituale, culturale, artistico. Quando nel 1895 il regime permise ai religiosi di tornare alle proprie case e ai propri conventi, essi erano ormai privati dei mezzi di sussistenza, ridotti a coltivare la memoria di una storia passata, una storia di santi che la “modernità” voleva oscurare e dimenticare perché gli uomini volevano “le tenebre piuttosto che la luce” (Giovanni 3, 19), volevano gli ideali atei, gli “immortali principi” che generarono i carnai della rivoluzione francese e del “risorgimento”, quei lumi funerei così ben messi a fuoco dal grande poeta palermitano Giovanni Meli (1740-1815) ne “L’addiu di la musa”:

Pri nui stu seculu,
ch’è sedicenti
luminusissimu,
nun luci nenti.
Di voli altissimi
sarrà capaci;
ma unn’è giustizia?
unn’è la paci?
Unni si trovanu
virtù e costumi?
dunca a chi servinu
sti tanti lumi?
Cu l’oru sbuccanu
da un novu munnu
li guai, chi abbundanu
cchiù chi nun sunnu.
La genti a st’idolu
stendi li manu,
e anchi offri vittimi
di sangu umanu.
Virtuti e meriti
sagrificati
sunnu a sta barbara
divinitati.

I servi di Lucifero hanno distrutto, ma neppure il diavolo può abbattere le pietre vive che si appoggiano alla Pietra Angolare. E i conti si fanno alla fine. C’è quindi ampio motivo di gioia e di speranza sotto la protezione del serafico Padre San Filippo.
Non resta, in conclusione che complimentare l’autore per l’accurata opera storica che ci ha donato e alla quale speriamo facciano seguito altre prove del suo non comune talento storiografico.

SEDDA C. (2019) San Filippo a Napoli. L’Oratorio napoletano dalle origini all’autonomia (1583-1628), Verona, Fede & Cultura


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