Che senso ha la morte?

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Fino a pochi decenni fa la morte era una ‘presenza sociale’ frequente e quotidiana. Ancora nel recente passato tutta la famiglia, compresi i bambini, prendeva parte all’esperienza diretta con la drammatica fisicità della morte.
La società postindustriale allunga le distanze da questa modalità tradizionale e sfrutta un doppio bina-rio di accostamento al fine vita: da una parte i media e le comunicazioni in tempo reale mettono ogni utente in contatto virtuale e mediatico con la morte nelle sue molteplici modalità espressive, comprese quelle particolarmente violente e raccapriccianti; dall’altra si tende a ridurre e a fare sparire il contatto diretto con la morte reale. La tendenza
fondamentale è di rendere invisibile l’evento ultimo e definitivo, relegando il concreto contatto con la morte a strutture e istituzioni a ciò de-legate.
Questi tentativi di mascheramento non sono tutta-via in grado di assopire e cancellare dal cuore umano il dolore, la sofferenza e il vuoto che viene lasciato dal distacco terminale con le persone care e con coloro con cui si è vissuto un rapporto di amicizia, di collaborazione o di lavoro. È in questa circostanza dove l’interrogativo sul significato della morte emerge con singolare preponderanza aprendo una lacerazione interiore alimentata da una diversificata sindrome di abbandono, senso di colpa, costernazione, impotenza, vuoto psichico e mentale.
Remo Bessero Belti, Non piangere, Fede & Cultura 2019

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