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di Luca Fumagalli (Radio Spada 10 febbraio 2019)
La casa editrice Gondolin ha appena dato alle stampe Gloria e disperazione dei Tudor, volume che raggruppa Il trionfo del re e La tragedia della regina, due dei romanzi storici più belli di mons. Robert Hugh Benson (1871-1914), noto al grande pubblico per aver firmato quel capolavoro della letteratura cattolica che è Il padrone del mondo.
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Il trionfo del re (1905) tratta con acutezza psicologica il dramma di una nazione chiamata a scegliere tra l’eresia e la Fede dei padri. Il motivo unificante delle vicende che, a mosaico, compongono la trama, è la spoliazione dei monasteri causata dall’ambizione e dell’avidità di Enrico VIII, l’ex defensor fidei rivoltatosi contro Roma. L’esito è una
brillante operazione di revisionismo storico che ha come fine quello di dimostrare la corruzione originale del protestantesimo inglese, nato esclusivamente per assecondare gli smodati appetiti del lussurioso sovrano.
Ambientato tra il 1533 e il 1540, il libro descrive il conflitto tra due fratelli appartenenti alla famiglia aristocratica dei Torridon. Sulla sfondo della contesa tra il Papa ed Enrico, Christopher, monaco fedele alla causa cattolica e intenzionato a rispettare la sua vocazione, fronteggia Ralph, ambizioso servo del potere, tanto accecato dal miraggio di una rapida carriera a corte da mettere da parte ogni scrupolo, giungendo persino a rifiutare la mano di Beatrice, la donna che ha sempre amato. Tra intrighi e misteri, tra aiuti provvidenziali e colpi bassi, il duello tra i due Torridon correrà il pericolo di risolversi in una lenta e inesorabile caduta nel baratro del peccato.
Il trionfo di Enrico VIII è, in realtà, passeggero e infecondo. Nel sorriso arrogante del re è dipinta la miseria di un uomo che ha sacrificato l’anima per uno strapuntino di potere. Il sovrano persegue con lucidità il suo progetto tirannico, non tollera che qualcuno possa mettere in discussione la sua volontà e non esita a eliminare chiunque tenti di sbarragli la strada. Per raggiungere i suoi scopi usa un’arma più efficace della violenza: la burocrazia, in grado di nascondere agli occhi del popolo i grandi cambiamenti in atto, ammantando di legalità e di rinnovamento spirituale i vizi del bolso Tudor.
Accanto a lui si muovono nell’ombra figure meschine e ambigue come l’ex prete Layton, oscenamente impegnato in prima persona nel saccheggio dei monasteri, e il fedelissimo cancelliere Thomas Cromwell, sempre attento a soddisfare ogni capriccio di Enrico da cui, ironia della sorte, verrà poi tradito e ucciso nel 1540.
Dalla parte opposta si ergono come giganti i veri trionfatori del libro. Sono i martiri – su tutti Thomas More e il cardinale John Fisher – che, sacrificandosi per affermare i diritti di Cristo e della Chiesa, hanno ottenuto la santità, l’unica vera vittoria. Attraverso il loro gesto passa il riscatto della nazione: come agnelli sacrificali versano il sangue per redimere un intero popolo dai suoi peccati.
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La tragedia della regina (1906) racconta invece la dolorosa storia di Maria Tudor, narrata attraverso gli occhi di Guy Manton, un universitario venuto a servirla a corte dopo il matrimonio con Filippo II di Spagna.
La miseria e la disperazione caratterizzano l’esperienza politica di una regina che non è in grado di comprendere l’umore del suo popolo, per nulla contento del ristabilimento della vecchia religione e piuttosto infastidito dai metodi sbrigativi che impiega per eliminare i ribelli e i dissidenti (da qui il tristemente famoso appellativo di “sanguinaria”). Il romanzo, interessato a recuperare i dettagli più nascosti della complessa personalità della sovrana, termina con la morte di Maria nel 1558, descritta dall’autore con un sorprendente espediente letterario, ricavando le immagini finali direttamente dalla mente della donna.
Il libro è una sorta di lungo studio psicologico, incentrato principalmente sul dramma personale della regina, a cui fa esplicito riferimento il titolo. Nonostante abbia sempre agito per il meglio e fatto di tutto per riportare il cattolicesimo in Inghilterra, Maria è inesorabilmente destinata alla sconfitta; la rovina a cui l’ha condotta una politica inefficace, il fallimento delle aspirazioni amorose e la rabbia di dover lasciare il trono a Elisabetta – con il rischio, poi rivelatosi realtà, di una nuova politica di protestantizzazione del paese – sono gli elementi che imbastiscono una tragedia che è privata e collettiva.
Nel fallimento politico affondano e danno frutto i semi della santificazione personale. La regina, il cui nome evoca quello della Madonna, ritrova la forza solamente sul letto di morte, quando scorge una forte identità con i patimenti subiti da Cristo: la sconfitta su questa terra è l’anticamera per la vittoria nell’eternità. Accade l’esatto opposto di quanto descritto ne Il trionfo del re che, con La tragedia della regina, costituisce una sorta di dittico speculare.
La storia inglese del XVI secolo rappresenta, in piccolo, quella dell’intera umanità, perennemente in bilico tra mondanità ed eternità, tra dannazione e salvezza. Dunque, leggere Gloria e disperazione dei Tudor non significa solo fare un tuffo nel passato, quando tanti cattolici ebbero a soffrire a motivo della loro Fede, ma è soprattutto una preziosa occasione per fare i conti con se stessi, un invito a combattere il peccato che è in noi, quello stesso male che su larga scala ha permesso lo scisma anglicano e tutte le violenze che ne sono seguite.
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