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S. Ecc.za il Vescovo di Verona Mons. Giuseppe Zenti, nel bellissimo salone dentro la Curia chiamato “Sala dei Vescovi” perché sono rappresentate in alto come dentro a una balaustra che fa da corona le figure degli oltre 300 Vescovi di Verona, al momento di iniziare la presentazione del libro autobiografico di don Ferdinando Rancan “UN SOMARELLO E LA SUA STORIA”, ha esordito dicendo che “Quel salone prestigioso affrescato prima del 1500 viene di solito riservato per eventi straordinari, e in effetti la vita di don Ferdinando Rancan è stata un evento straordinario per tutta la diocesi”.
Con questa premessa del Vescovo e con gli ulteriori interventi di Mons. Ezio Falavegna, Vicario episcopale, di don Ermanno Tubini, guida spirituale di don Ferdinando nell’ultimo decennio, e della signora Marisa Bommartini che ha potuto godere della guida spirituale di don Ferdinando per
molti anni, in questa sala prestigiosa gremita di gente, è stato tracciato un breve profilo della sua vita eccezionale, non per aver compiuto imprese eroiche, ma perché ha saputo portare serenamente una pesante ma invisibile croce quotidiana dietro a un sorriso costante e ad una grande disponibilità e amabilità verso tutti.
A prova di quanto scritto, ci sembra doveroso riportare un brano del libro citato a pag. 226 che narra di un episodio particolare accadutogli durante la sua permanenza in Seminario, intorno agli anni 1948/49:
“Quando a sera i miei compagni si mettevano a letto, io, approfittando della difficoltà a coricarmi secondo l’orario a causa dello stomaco, mi recavo in cappella e mi fermavo in ginocchio fino a tardi davanti al Tabernacolo, ora con lunghi silenzi, ora con insistenti invocazioni bagnate da lacrime di commozione e di consolata sofferenza. Erano momenti in cui la mia devozione all’Eucaristia si apriva a un rapporto con Gesù più personale e intimo; l’immagine del suo cuore trafitto e coronato di spine diventava una lampada ardente che rischiarava il buio dell’anima e soprattutto riscaldava, infiammandoli, i sentimenti del cuore. Questa devozione all’Eucaristia come Amore che si dona prendeva nuova concretezza nella devozione all’Amore sofferente, che si dona nel dolore, amore che mi veniva suggerito non dall’effige di Gesù Crocefisso, bensì dall’immagine del Sacro Cuore.
Una sera uscivo dallo studio per recarmi in cappella, e dovevo passare per la stanza dove i miei compagni già a letto dormivano. Entrato nel corridoio completamente al buio fui attratto da un tenue chiarore che illuminava un’immagine collocata sopra la porta. Era l’immagine di Gesù che teneva in mano, nell’atteggiamento di offrirlo, il suo cuore ferito e sanguinante, circondato da spine, avvolto dalle fiamme e sormontato da una croce. Il suo sguardo intenso e dolcissimo si incontrò col mio e subito mi ricordai delle sue parole: “Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini e da essi non riceve che ingiurie e indifferenza”.
Quel tenue chiarore sul volto luminoso di Gesù che accennava a un sorriso delicato e insieme severo mi lasciò profondamente turbato e mi parve di intuire che senza dolore è difficile capire l’amore. Così mi sentii spinto a chiedere con insistenza al Signore di soffrire molto per poter vivere più profondamente l’intimità con lui. Forse fu presunzione, forse superficialità o incoscienza, ma credo che il Signore abbia accolto, almeno in parte, la mia preghiera, perché nella mia vita non ho mai saputo cosa fosse il benessere fisico”.
Ma don Ferdinando dovette scontrarsi con problemi di salute, non solo da quel momento dell’offerta di sé stesso ma da sempre, fin dalla sua nascita, anzi, talvolta si trattava di malattie gravi che lo portavano in rianimazione come fosse morto e dalla quale si riprendeva poi all’improvviso come per miracolo, fatti dei quali parlava talvolta con estrema semplicità e anche riservatezza in occasione di incontri di famiglia quando ci si scambiano confidenze reciproche e si ricordano eventi belli o brutti degli anni passati.
Amava così tanto la Santa Messa che per lui era inconcepibile passare un giorno senza celebrarla, magari in casa se stava male, o addirittura all’ospedale sul tavolino avendo sempre a disposizione una valigetta con tutto l’occorrente. Tant’è vero che l’ultimo giorno della sua vita passato al Pronto Soccorso per l’aggravarsi della situazione respiratoria, dopo varie cure, all’improvviso ebbe una forte ripresa, si sedette sul letto, si guardò attorno e poi, con fare perentorio disse ai presenti: “Portatemi a casa perché voglio dire la Messa!”. Furono le sue ultime parole perché di lì a poche ore entrò in coma e si trovò a celebrare la Messa con Gesù in Paradiso.
Molti si domandano: “Perché questo titolo “Un somarello…” che sembra quasi dispregiativo nei confronti dell’autore? Chi mai avrebbe potuto “appioppare” un titolo del genere a un sacerdote, oltretutto molto colto, raffinato, di preghiera e di alta spiritualità se non lui stesso? In effetti è stato proprio lui, l’autore, nella sua squisita umiltà, a volere questo titolo, con vera insistenza e convinzione anche contro coloro che manifestavano la loro decisa contrarietà davanti a questa scelta. Proprio perché quel simpatico animale dalle orecchie lunghe gli ricordava la laboriosità silenziosa e l’umiltà nel compimento dei propri doveri.
Che don Ferdinando ci protegga dal cielo e faccia innamorare tutti i cristiani, soprattutto i sacerdoti, della figura meravigliosa di Gesù nostro Dio e Amore come egli stesso ha saputo amare. Non c’è altro modo di rimanere fedeli alla propria vocazione se non AMANDO! Solo l’amore è in grado di vincere tutte le passioni, battaglie, tentazioni, umiliazioni, offuscamenti, incomprensioni, ecc. che soprattutto le anime consacrate, in particolare i sacerdoti, devono affrontare se vogliono rimanere fedeli alla loro vocazione. “Tu, anima bella, innamòrati di Gesù e non lo lascerai”, diceva un santo sacerdote anche lui veramente innamorato di Gesù, San Josemaria Escrivà in un punto di “Cammino”. In effetti su quale forza, su quale arma, in virtù di quale “Personaggio speciale” si può puntare per vincere le insidie del diavolo se non sull’Amore soprannaturale per Gesù sapendo di essere da Lui amati e protetti? Dove mai potevano e possono tuttora attingere la loro forza i martiri cristiani disposti a dare la propria vita piuttosto che rinnegare la loro fede e il loro amore per Gesù Cristo? SOLO GESÙ È LA FONTE DELLA NOSTRA FORZA, DELLA NOSTRA FEDE, DELLA NOSTRA GIOIA E ANCHE DELLE NOSTRE VITTORIE.
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