Il primato della realtà sulla coscienza

di padre Giovanni Cavalcoli

Il Papa corregge padre Sosa
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Il Santo Padre ha inviato l’11 novembre 2017 un videomessaggio ai partecipanti al III Simposio Internazionale sull’Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia”, un breve ma sostanzioso indirizzo, nel corso del quale ha pronunciato le seguenti parole: “Il mondo contemporaneo rischia di confondere il primato della coscienza, che è sempre da rispettare, con l’autonomia esclusiva dell’individuo rispetto alle relazioni che vive”.  

Che cosa intende il Papa con “primato della coscienza”? Perché e in che senso lo elogia? E a chi si riferisce con le dure parole di condanna e di avvertimento che seguono? Papa Francesco riprende evidentemente l’espressione di Padre Sosa, che appunto in un’intervista rilasciata l’inverno scorso, aveva citato la “priorità della coscienza personale”, come di una cosa da “sempre ribadita dalla Chiesa”. 
In un mio intervento, ho smentito seccamente e confutato Padre Sosa per le sue gravissime affermazioni, accennando brevemente sia all’erroneità della tesi del “primato della coscienza”, che, per conseguenza, alla falsità dell’affermazione che essa sarebbe dottrina della Chiesa. La Chiesa non ha mai sostenuto una cosa del genere. 
Ritengo utile innanzitutto riportare le mie parole, le quali, anche dopo l’intervento del Santo Padre, mantengono tutto il loro valore: “La Chiesa ha sempre insegnato la priorità della verità sulla coscienza e quindi il dovere della coscienza di adeguarsi alla verità. «Le armi della nostra battaglia hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo» [cfr.  2Cor 10, 3-5]. La coscienza è soggetta alla verità, non padrona della verità. Occorre certo agire come detta la coscienza [cf. 2Cor 1,12]. Nessuno nega la libertà della coscienza. Però questa libertà nasce dalla verità. Nessuno può essere altresì costretto ad agire o impedito di agire contro la sua coscienza [cfr. 1Cor 10,29], salvo la salvaguardia del bene pubblico. Ma la coscienza deve essere informata, formata ed educata, benchè sia scusato chi erra in buona fede [cfr. Lc 23,34]”. 
Parlare, pertanto,  di un ”primato della coscienza” in senso assoluto, come fa Padre Sosa, con la pretesa di spacciarlo per dottrina della Chiesa, è la sfacciata ed ipocrita empietà di chi, dietro l'apparente obbedienza alla Chiesa, vuol sostituire la propria volontà a quella divina. E’ l’errore fondamentale dell’etica idealista-panteista, che trae origine dall’autocoscienza  cartesiana e dall’etica soggettivista ed individualista, falsamente evangelica, inventata da Lutero.  
Occorre spiegare perchè il Papa ha citato la tesi del “primato della coscienza” e come le parole del Papa devono essere intese. Osserviamo anzitutto che il Pontefice lascia cadere il riferimento di Padre Sosa alla dottrina della Chiesa, del tutto menzognero. E pertanto si comprende bene il silenzio del Papa su questo punto.  
Chiediamoci, invece, perché il Pontefice l’abbia considerato “degna di rispetto” la tesi sul primato della coscienza. Escludendo, nei termini che vedremo, che essa debba essere intesa in senso proprio, non resta che affermare che il Santo Padre probabilmente per “primato della coscienza” abbia inteso dire “dignità della coscienza”. Questa sì che è la posizione tradizionale del Magistero della Chiesa, ancora presente nel Concilio Vaticano II, il quale chiarisce che la coscienza non primeggia affatto sulla realtà, ma è sottomessa alla legge morale. 
Diciamo subito che in ogni caso non si può dubitare del fatto che il Papa non ha assolutamente avallato il significato idealista dell’espressione, dato che subito dopo condanna con tutta chiarezza tale accezione dell’espressione in questi termini: «c’è chi parla persino di egolatria, ossia di un vero e proprio culto dell’io, sul cui altare si sacrifica ogni cosa, compresi gli affetti più cari. Questa prospettiva non è innocua: essa plasma un soggetto che si guarda continuamente allo specchio, sino a diventare incapace di rivolgere gli occhi verso gli altri e il mondo. La diffusione di questo atteggiamento ha conseguenze gravissime per tutti gli affetti e i legami della vita. È questo un ‘inquinamento’ che corrode gli animi e confonde le menti e i cuori, producendo false illusioni”. 

Il Papa contro l’idealismo 
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Del resto, la polemica del Papa contro l’idealismo non è nuova in lui. Già sin dagli inizi del suo pontificato, nell’enciclica programmatica Evangelii Gaudium, egli ha ripreso la tradizionale condanna ecclesiastica dell’idealismo a favore del realismo, colpendo radicalmente l’idealismo con un frase lapidaria finora mai pronunciata dai Pontefici precedenti: “la realtà è superiore all’idea”.  
E lo spiega: “L’idea – le elaborazioni concettuali - è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà”. Per questo, "l’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento”. 
La concezione idealistica di una coscienza, che pretende di essere padrona della realtà, riducendo l’essere al pensiero e la realtà all’idea, - ci spiega Papa Francesco - riduce l’azione all’idea dell’azione, e crede di potersi soddisfare sostituendo l’azione reale con l’azione pensata. Ma questo vuol dire restare sul piano delle idee e non passare ai fatti. Dunque – spiega il Papa - “non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi e gnosticismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo”.  
E il Santo Padre, che, a più riprese nel suo pontificato, ha attaccato l’idealismo, e ci fa ritrovare il realismo gnoseologico della Sacra Scrittura e della sana tradizione cattolica, come per esempio S.Tommaso d’Aquino, anche in questa circostanza,  nota come “questo atteggiamento ha conseguenze gravissime per tutti gli affetti e i legami della vita. È questo un ‘inquinamento’ che corrode gli animi e confonde le menti e i cuori, producendo false illusioni”. 
E’ interessante come il Padre Sosa, parlando del “primato della coscienza”, non specifica su cosa la coscienza detiene il primato, su cosa primeggia. Si nota qui la sua slealtà, che teme di scoprirsi. Ci spinge a scivolare, ma non ha il coraggio di spingerci fino in fondo. Ma non è difficile scoprire il suo gioco. Basta ricordare che l’insieme dell’esistente comprende due mondi sconfinati: quello dell’ideale e quello del reale, il mondo del pensiero e il mondo dell’essere. In linguaggio scolastico si dice: ens rationis ed ens reale.  
Ora, la coscienza esprime il mondo del pensiero o delle idee. Se dunque parliamo di “primato della coscienza” in assoluto, siamo costretti a sottintendere: “primato dell’idea sulla realtà o del pensiero sull’essere”, che è esattamente il notissimo principio fondamentale dell’idealismo, preparato da Cartesio e Kant ed inaugurato da Fichte, attraverso Schelling ed Hegel, fino a Gentile e ad Husserl. Padre Sosa, quindi, con questo suo sporco espediente, mostra non solo di essere un vile, ma si rende anche ridicolo. 
La Chiesa, certo, ha sempre esaltato la dignità della coscienza, ma non si è mai sognata di insegnare un primato della coscienza su tutta la realtà, come sembra alludere Padre Sosa. Quello che la Chiesa invece insegna e ha sempre insegnato con chiarezza è il primato della legge morale sulla coscienza, come regola del suo agire. Dice per esempio il Concilio Vaticano II: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge, che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama sempre ad amare ed a fare il bene e fuggire il male, quando occorre, e chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato”. 
L’unico appunto che potremmo fare al Pontefice, è di aver voluto raccogliere con eccessiva accondiscendenza e bontà, e forse ingenuità, l’obbrobriosa e astuta espressione idealista e soggettivista di Padre Sosa, forse al fine di purificarla, salvo poi a spiegarla con parole che dicono l’esatto contrario, un rifiuto che merita di essere da gettato. Gesù ci dice di non spegnere il lucignolo fumigante, ma non di odorare la puzza di fumo della candela spenta.  

Natura e funzioni della coscienza morale 
La coscienza, in generale, è l’attitudine naturale del nostro intelletto, grande pregio del nostro spirito, a riflettere, ossia a pensare a se stesso, a pensare i propri pensieri, concetti, nozioni, definizioni, giudizi, ideali, propensioni, emozioni, affetti, desideri, aspirazioni, impulsi all’azione, azioni compiute, enti immaginari o fantastici, intenzioni e valutazioni, a tornare su se stesso o a volgersi verso se stesso in quanto contenente una conoscenza o idea precedentemente acquisita dalla realtà esterna o qualche concetto o giudizio depositato nella memoria ed in essa nascosto. La coscienza lo fa emergere alla luce dell’intelletto o esso stesso spontaneamente riappare alla coscienza.  
I contenuti o dati della coscienza sono originariamente attinti dalla realtà sensibile esterna, dalle cose che sono fuori di noi, in quanto questi dati giacciono nella memoria nello stato di oggetti concepiti o pensati, ossia in quanto cose già concepite e pensate al momento in cui in precedenza le abbiamo attinte spontaneamente e direttamente nella loro realtà, cose esterne le quali, pur restando esterne, sono divenute interiori, le abbiamo assimilate, interiorizzate e fatte nostre grazie a un precedente atto di conoscenza o di intuizione conservato nella memoria. 
La coscienza ha due orientamenti naturali o spontanei: un orientamento speculativo e un orientamento morale. Col primo, detto anche “consapevolezza” (Bewusstsein), sappiamo di poter conoscere ed esprimere la verità nel giudizio, per cui siamo in grado di correggere sia i nostri che gli altrui errori. E’ questa la coscienza critica. Essa ha due oggetti fondamentali: il nostro io e la realtà esterna. La prima, per  la quale siamo coscienti di esistere, perché abbiamo coscienza di pensare, è la coscienza di sè o autocoscienza (Selbstbewusstsein), detta anche semplicemente l’”io” o il”sé”, a seconda che parliamo in prima persona o ci riferiamo agli altri. 
La verità del giudizio della coscienza dipende dall’essersi adeguata al dato oggettivo, relativo alla realtà, che è la regola della verità di tutta l’attività dell’intelletto speculativo e pratico, sia della conoscenza diretta, che di quella riflessa, ossia la coscienza. Il giudizio della coscienza, per essere direttamente operativo, deve sfociare nel giudizio della prudenza, che governa immediatamente e concretamente l’azione. 
Nella sua adeguazione alla realtà speculativa o morale, la coscienza può errare, cioè non adeguarsi al dato oggettivo o involontariamente o volontariamente. Nel primo caso, abbiamo la coscienza erronea, che comporta la cosiddetta ”ignoranza invincibile”, più comunemente chiamata ignoranza in “buona fede”; nel secondo caso, invece, abbiamo la coscienza disonesta o in mala fede, che è una colpa morale. 
La coscienza non è indipendente dalla verità e neppure è principio della verità e tanto meno della realtà. La coscienza non crea né la verità né la realtà, e quindi neppure le leggi fondamentali dell’agire umano, ma ciò spetta solo a Dio. La coscienza, pertanto, non ha nessun primato sulla verità e sulla realtà, ma al contrario, è tenuta a sottomettersi ad esse.  
La coscienza ha bensì e comunque un primato ampio, ma molto ben delimitato, che del resto ne fa la sua altissima dignità: primeggia da signora solo sui suoi atti propri e li regola, nel senso che, in forza del libero arbitrio, ne è padrona, ma ne è legittimamente padrona solo in quanto, mediante la ragion pratica e la virtù della prudenza, si sottomette alla verità e alla legge di Dio. 
La coscienza, certamente, in quanto atto dello spirito, legato al mondo della trascendenza, ha un primato tra i valori materiali e sensibili, che essa ha il compito di usare saggiamente e con moderazione, senza lasciarsi sopraffare dagli interessi ad essi legati.  
Ma la coscienza ha anche l’ufficio di presiedere e controllare il nostro personale agire, e di fornirci i criteri morali che devono guidare e giudicare le nostre azioni. Per quanto riguarda l’agire altrui, vale la legge morale oggettiva ed universale, la quale in verità vale anche per noi; ma in tal caso essa è mediata dalla nostra coscienza, che ha il dovere di applicarla nei casi concreti. 
  E’, questa, la coscienza morale (Gewissen), sulla quale ci fermiamo qui in modo particolare. E’ quella che S.Agostino chiama “memoria”, che non è tanto ricordo di fatti passati, quanto piuttosto, come osserva acutamente il Gilson9, memoria del presente, ossia di un dovere o di una legge immutabile, sovratemporale, che non passa – la legge naturale e divina –, depositata certo nella memoria, ma sempre attuale, solo che ce ne ricordiamo. 
L’etica biblica è un’etica del ricordo: ci si deve il ricordare del Signore (Sal 77,4), della sua legge (Sap 16,6), dei suoi benefìci (Is 63,7), delle sue opere (Sir 42,15) e delle sue vie (Is 64,5). Si devono soprattutto ricordare le parole di Cristo (per es. Mt 26,75; Gv 2,22; 14,26; 16,4; Lc 24,6; At 11,16; 20,35). E come ci si ricorda di una cosa, se non se ne prende coscienza? 
La coscienza morale è il ricordo operante e  stimolante dei fini dell’uomo e del cristiano, degli ideali e dei  valori morali e spirituali, colti nel passato o nel presente dall’intelletto o per intuizione o per ragionamento o per fede in Cristo, per induzione ed analogia, partendo dalle intuizioni e percezioni del senso.  
La coscienza morale cattolica è l’applicazione giudicante e giudiziosa della scienza e della teologia morale o della ragion pratica, basata sull’esperienza morale e illuminata dalla fede e dal Magistero della Chiesa, al nostro atto da compiere o compiuto o in via di compimento.  
 La coscienza, per essere retta, ha sempre il dovere di adeguarsi al bene oggettivo interno o esterno, fosse anche un’idea falsa, circa la quale non sa che è falsa. Il soggettivismo nasce da una concezione idealista della coscienza, per la quale il soggetto si crede non servitore, ma produttore della verità. Non basta adeguarsi alle proprie idee, se non si ha previamente verificato che esse siano vere, ossia corrispondenti al reale. 
La libertà, la capacità decisionale, l’autonomia e la responsabilità della coscienza non devono essere una scusa per sottrarsi al dovere di cercare la verità, di informarsi e di sottomettersi ad essa, quindi correggersi, quando ci si accorge o ci viene dimostrato da altri che abbiamo sbagliato. Errare humanum est, perseverare est diabolicum, dice il proverbio. Chi non si ravvede o non vuol ascoltare la correzione, anche quando gli si è dimostrato che sbaglia, non può essere in buona fede ed avrà un conto salato da pagare. 
Per S.Tommaso, la coscienza prevale anche sul giudizio degli altri, se dovessero essere ad essa contrari, fossero anche i pareri dei superiori: “la testimonianza della coscienza – egli dice - è vera, perché non inganna. Molti infatti esteriormente appaiono buoni, mentre davanti alla loro coscienza non lo sono. … Si deve sempre stare di più alla testimonianza della propria coscienza circa la propria condotta, che non alla testimonianza degli altri”. “Il vincolo della coscienza è maggiore del vincolo relativo al comando del prelato, e vincola la coscienza, anche se è contrario al comando del prelato”. 
La coscienza non inganna non nel senso che essa sia infallibile o principio assoluto di verità o non possa errare in buona fede, ma in quanto essa, sempre e comunque, è la regola interiore, prossima ed immediata del nostro agire, per cui sempre dobbiamo seguirla, anche se, a cose fatte, ci accorgiamo di esserci sbagliati. Ma non ne abbiamo colpa, appunto perché abbiamo seguìto la nostra coscienza. 
 Questa è la coscienza buona ed onesta. Ma esiste anche quella cattiva o disonesta. Dipende dalla nostra volontà. La coscienza cattiva inganna, perché è ribelle e non cerca la verità; ma in tal caso noi non ascoltiamo la coscienza, inganniamo noi stessi e lo sappiamo. Questa è la coscienza falsa e colpevole, che non ha scuse. 
La coscienza non è la regola assoluta e originaria dell’agire morale e il principio creatore ed istitutore della legge morale. Costui è soltanto Dio, che ha creato l’uomo e gli ha assegnato i fini del suo agire e quindi le leggi che devono servire a realizzarli. L’uomo, nello spazio decisionale di libertà, che gli è consentito dai limiti della sua natura e delle sue facoltà, nonchè dai precetti rivelati dalla volontà di Dio, può stabilire leggi positive e norme particolari, ma sempre nell’ambito della legge divina e naturale. 
L’ideale morale contenuto nella coscienza certamente può e deve guidare il mondo reale materiale, perchè è lo spirito che deve guidare la materia; ma l’idea formulata dalla coscienza non può dominare la realtà nel suo insieme, ma solo quella porzione di realtà che è sottomessa al potere dell’uomo e deve farlo in obbedienza alle leggi che Dio ha stabilito nel mondo e nell’uomo. 
Ecco qui allora la vera funzione della coscienza: le sue idee, i suoi concetti devono cogliere e comprendere la realtà oggettiva speculativa e dirigere quella pratica. Quale? Gli atti umani! Altro che il tracotante e rahneriano “primato della coscienza” di Padre Sosa, con tutto il suo idealismo e soggettivismo, per non dire egolatria! 
Per agire correttamente e virtuosamente, occorre basarsi su di un giudizio di coscienza certo o almeno probabile. La certezza della verità è possibile solo nel campo speculativo, dove l’intelletto è necessitato o dall’esperienza o dalla ragione, e nel campo della fede, dove l’intelletto è determinato, sotto l’impulso della grazia, ad aderire fermissimamente e certissimamente alla verità rivelata, a  costo della vita. 



Oggettività e soggettività della coscienza 
Dire che ognuno ha una sua coscienza non è necessariamente soggettivismo, ma è la verità ed è cosa normale, che non ci deve turbare. Certo, esiste anche una coscienza comunitaria o collettiva, c’è anche una coscienza universale, infallibile ed immutabile della legge naturale. E’  la cosiddetta ”sinderesi” (synèidesis), della quale  parla S.Paolo (Rm 2,15). 
Soggettivismo si avrebbe, se, con mentalità protagorea, concepissimo la coscienza del singolo soggetto come misura assoluta del reale, negando la possibilità data ad ogni uomo ragionevole di cogliere la medesima verità oggettiva, e cedessimo alla falsa idea che quot capita, tot sententiae o accettassimo il detto storicistico che veritas est filia temporis. 
Il fatto tuttavia innegabile e spiacevole che la coscienza, pur con ogni buona volontà, possa scostarsi ogni tanto dal vero, ci obbliga a distinguere un lato soggettivo da un lato oggettivo della coscienza. Così la coscienza onesta si sforza di essere oggettiva, ossia verace. Essa desidera conoscere le cose così come sono e di fatto normalmente le conosce. Vuol sapere qual è il suo dovere, qual è la legge morale, per obbedirle. 
Il soggettivo è ciò che a appare alla coscienza o del singolo o della collettività, questo apparire può però non corrispondere all’oggettivo, ossia a come la cosa o la norma è in sé. Ma in tal caso la coscienza resta innocente. Colpevole è quando, pur conoscendo la verità, la coscienza si lascia sedurre dall’apparenza. L’ideale sarebbe che soggettivo ed oggettivo coincidessero sempre. Invece occorre spesso accontentarsi della buona fede, pur mantenendo sempre la coscienza attenta al valore oggettivo. 
Non è detto che ciò che è oggettivamente peccato o giustizia sia sempre soggettivamente sentito come tale. Non è detto che la coscienza soggettiva sia sempre oggettiva. Questo può dipendere da due fattori: o perché il soggetto si sbaglia13 o perchè non vuol regolarsi sull’oggetto, ma su se stesso, pensando che non occorra o non sia possibile.  
In realtà, la coscienza dovrebbe subordinarsi alla realtà del fine da raggiungere o del bene da praticare, ma se con visione soggettivistica crede di poter primeggiare sul reale, e far scaturire da stessa il fine e il bene, chiudendosi in se stessa e perdendo il contatto con la realtà, - come osserva il Papa -, il suo vantato “primato” è nullo ed anzi essa diventa schiava del peccato e fallisce lo scopo della sua vita. 
 Per questo, se la coscienza, al di là delle sue debolezze, può svolgere i suddetti nobili uffici, è solo perchè essa a sua volta si sottomette ai valori superiori della morale e della religione, chè se essa, inorgoglitasi della sua libertà o della sua potenza, pretendesse di essere signora assoluta del reale e della verità, con intollerabile tracotanza, le ali di cera di Icaro si scioglierebbero ed Icaro precipiterebbe miseramente sulla terra.  
“Chi vuol fare l’angelo – diceva argutamente Pascal contro i cartesiani –, finisce per fare la bestia”. Il castigo delle intelligenze superbe è il restare cieche alle più lampanti evidenze del senso comune, attingibili anche da un bambino, come è successo a Cartesio, che giudicava un’illusione il credere nella veracità del senso e che le idee delle cose esterne siano in linea di principio rappresentazioni veraci, tratte dal senso, delle medesime cose.  
La coscienza può errare o involontariamente o volontariamente. Un conto è non vedere e un conto è non voler vedere. Chi non riesce a vedere perché ingannato una falsa apparenza, resta innocente davanti a Dio e a se stresso, se non davanti agli uomini: Dio calcola questo atto oggettivamente ingiusto, ma soggettivamente creduto giusto,  come se il soggetto avesse colto il giusto. 
Fuggiamo dunque dalle mire di una falsa libertà, che vorrebbe escludere ogni soggezione della coscienza al dovere e alla legge divina. Se Paolo dice che il cristiano “non è più sotto l’influsso della legge, ma della grazia” (Rm 6,14), queste parole non vanno certamente riferite alla legge naturale ed a quella evangelica, sulle quali tanto insiste nelle sue Lettere, ma bensì all’ostinato attaccamento dei Giudei alle vecchie pratiche legali, contando su di esse per la salvezza e non sulla fede nella legge di Cristo.  
Padre Giovanni Cavalcoli - Varazze, 16 novembre 2017 


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