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Se chiediamo a un campione di cittadini mediamente informati e di buona istruzione quale sia il problema più grave dell’Italia, otterremo una notevole varietà di risposte. Alcuni parleranno dell’immigrazione, moltissimi della disoccupazione, altri della perdita dei diritti sociali, qualcuno del declino dei principi morali, della corruzione e così via. La nostra tesi è diversa: la questione più rilevante è la denatalità. Un popolo che non fa figli è destinato a finire per consunzione biologica. Si trascina nell’egoismo, nella sfiducia del futuro, nella chiusura mentale, nel rifiuto stesso della vita. Poiché la natura ha orrore del vuoto e altrove la pressione demografica è immensa, qualcuno, fatalmente, ci sostituirà. La civiltà in cui siamo nati sparirà e l’Italia diventerà un concetto del passato. La studieranno sui libri di storia.
Il presente intervento si pone un obiettivo: affermare che le culle vuote sono il problema più grave e urgente della nazione e le difficoltà economiche, finanziarie e sociali nelle quali ci dibattiamo hanno tra le cause scatenanti l’invecchiamento e la conseguente diminuzione della popolazione. Forse non è del tutto vero, come pensava Benito Mussolini, che il numero è potenza, ma certamente, in un tempo che aspira alla crescita infinita, perdere popolazione è un elemento di profonda debolezza, il segnale visibile del declino. Nel presente, solo gli argomenti legati all’economia o agli interessi riescono a convincere. Per questo rinunciamo alla mozione dei sentimenti, all’appello in favore della nostra civiltà, al patriottismo, alla necessità di salvare dall’estinzione la nostra nazione. La nostra tesi è che la continuità biologica del popolo italiano conviene, è il migliore investimento per il futuro, un grosso affare per tutti e per ognuno.
Partiamo da alcune cifre. La discesa delle nascite è iniziata alla metà degli anni 70 del secolo passato ed è proseguita con moto accelerato sino all’attuale inverno demografico. I nuovi nati, da allora, sono diminuiti del 50 per cento: è un dato drammatico e ogni statistica annuale certifica un nuovo primato negativo. In una popolazione, per riprodursi senza aumentare, il tasso di fertilità non deve essere inferiore a 2,1 per ciascuna donna in età feconda. La media attuale è di 1,35. Entro pochi anni, la popolazione diminuirà di ben dieci milioni. Noi pensiamo che sia un male, un evento epocale a cui porre rimedio senza ricorrere alla soluzione perseguita dalle oligarchie di potere, ovvero la sostituzione degli italiani con popolazioni di altra origine, cultura, etnia.
Un dato inconfutabile dovrebbe far riflettere: la curva del debito pubblico ha iniziato la sua impennata da quando ha cominciato a calare la natalità. Le uniche province italiane in cui il numero dei nati supera quello dei morti sono quelle di Trento e Bolzano. In Alto Adige è attiva un’agenzia per la famiglia dotata di fondi e di idee, tanto che l’Istat ha ammesso che se quelle politiche fossero estese all’Italia intera, figureremmo tra gli Stati europei con la più elevata natalità. Vi sono dunque soluzioni, per quanto fatalmente di lungo periodo, al di là degli immensi mutamenti antropologici e valoriali dell’ultimo mezzo secolo.
Il libro più interessante sull’argomento è il recente La culla vuota della civiltà, scritto a quattro mani da un politico, l’attuale ministro per la famiglia Lorenzo Fontana e da un economista, banchiere e docente di grande prestigio come Ettore Gotti Tedeschi, esponente di punta della cultura cattolica, amico personale di papa Benedetto XVI. Ci ha colpito la citazione che fa da incipit all’introduzione del prezioso saggio. E’ di Cesare Pavese, il tormentato figlio della civiltà contadina delle Langhe: “chi non fa figli per non mantenerli, manterrà quelli degli altri. “E’ tratta dal Mestiere di vivere, il diario esistenziale dello scrittore, e ci sembra una fotografia impietosa quanto corretta della realtà. Tocca un punto essenziale, l’egoismo dei molti che non vogliono condividere con nessuno vita e beni. La loro scelta è miope e controproducente anche sotto il profilo individuale. Già oggi, per cento italiani con meno di quindici anni, se ne contano ben 165 che hanno superato i 65. Tenuto conto della realtà sociale, dei meccanismi del lavoro e del ritardo con cui si entra nel mondo dei mestieri e delle professioni, preso atto della presenza di almeno due milioni e mezzo di badanti, in maggioranza straniere, già oggi manteniamo i figli altrui.
Entro un ventennio, un terzo della popolazione sarà in età avanzata, bisognoso di cure e di assistenza. L’incidenza sul sacro PIL delle spese relative è di circa 30 miliardi, l’1,9 del totale e schizzerà in breve al 3 per cento. Il sistema pensionistico, al netto di aggiustamenti e rimodulazioni, costa già 220 miliardi annui, la spesa sanitaria supera i 112 e quella assistenziale i 70. Il picco della spesa previdenziale, tra circa vent’anni, raggiungerà il 16,3 per cento del PIL. Economisti senza paraocchi considerano l’invecchiamento della popolazione come un gigantesco freno all’economia. Gli anziani consumano meno delle altre fasce di età, e ciò “comporta una domanda che cresce di meno e una formazione di risparmio più consistente, per l’incertezza del futuro “(fonte Centro Studi Nomisma, quello di Romano Prodi). Quel risparmio rimarrà tendenzialmente fermo e non andrà a finanziare l’innovazione e la nuova impresa, per evidenti motivi.
Nessuna scelta politica e finanziaria potrà prescindere dall’enorme spesa legata alla gestione di una popolazione entrata nella terza età, gli investimenti per l’istruzione, la cultura, la formazione professionale diminuiranno. In un paese di pensionati, pochi lavorano e la nazione crolla. L’involuzione progressiva comporterà rischi nuovi e problemi mai affrontati in questa proporzione da civiltà precedenti. Lo scenario si prospetta tempestoso. La Federal Reserve ha calcolato che l’effetto della denatalità sulla crescita del PIL europeo è dell’1,25 annuo dagli anni ottanta. Per noi, al valore attuale si tratta di circa venti miliardi annui. E’ l’importo di una pesante manovra economica del governo.
Le previsioni di Bankitalia sono inquietanti. La diminuzione della popolazione porterà al dimezzamento della crescita economica a medio termine e all’aumento della disoccupazione strutturale di lungo periodo, che salirà almeno all’8 per cento. Non si potrà sopperire con l’aumento della produttività, che anzi tenderà a scendere. Il collasso per il bilancio dello Stato sarà inevitabile, a meno di una drastica, ulteriore diminuzione della spesa sociale e di un aumento insopportabile della pressione fiscale.
Conosciamo tutti il destino di tanti piccoli centri colpiti prima dall’emigrazione dei giovani, poi dall’invecchiamento della popolazione residua. Il passo ulteriore è la chiusura delle attività commerciali di prossimità, degli uffici postali e dei presidi sanitari. Gli ultimi abitanti sono costretti a fuggire, rendendo le località degli spettrali deserti. Non sarà diverso il destino dell’Italia. Non c’è dubbio che la tolleranza dei governi nei confronti dell’immigrazione illegale sia ampiamente concordata ai massimi livelli per fare scorta di braccia da impiegare e sfruttare. In astratto, se la scelta è di mantenere i ritmi di sviluppo e i livelli di ricchezza raggiunti, non vi è altro da fare. Non è questa, ovviamente, la nostra tesi, ma nessuno può negare che senza una rapida inversione di tendenza, una gigantesca scommessa sulla capacità e volontà della nostra comunità di cambiare il corso degli eventi, non vi siano alternative.
Siamo prigionieri di due enormi menzogne. La prima è quella di chi ritiene l’uomo il cancro della natura, dunque scoraggia le nascite e, specularmente, disprezza il ruolo sociale degli anziani. La diffusione dell’eutanasia è un elemento di queste tendenze. Gli anziani sono inutili, poco produttivi, cattivi consumatori, si ammalano spesso, meglio convincerli a morire. E’ una sporca questione di denaro. Pochi figli e disprezzo della vecchiaia sono idee gemelle, frutto degli stessi disvalori, il rispetto per i vecchi e l’amore per i figli muoiono insieme, scrisse Victor Hugo. L’altra è la persistenza, nonostante le smentite della storia, dell’economia e della matematica, dei principi malthusiani. Thomas Malthus, economista inglese tra i massimi esponenti della scuola classica, sosteneva che la colpa della miseria di tanta parte della popolazione fosse dovuta all’istinto naturale di riproduzione. Per lui la vita non è altro che una lotta per lo spazio e il cibo in cui la popolazione aumenta molto più velocemente delle risorse disponibili, progressione geometrica contro progressione aritmetica.
In questo schema regressivo, l’unica soluzione per generare crescita economica nonostante le culle vuote, in cui la società tende a non riprodurre se stessa, è spingere al massimo il consumismo. Risultato, danni ambientali crescenti per lo sfruttamento dissennato del creato e nessuna possibilità di dedicare risorse a riequilibrare la bilancia generazionale. Il risparmio deve infatti sovvenzionare i consumi, mentre le tasse si alzano per coprire la spesa assistenziale e previdenziale, allontanandosi da investimenti produttivi e ricerca. Poiché consumare si trasforma in obbligo sociale, il reddito non basta, costringendo entrambi i coniugi a lavorare, il che allontana la nascita di figli o la rende insostenibile economicamente, oltreché un fastidio per le abitudini edonistiche di massa.
Per tenere alto il livello di consumo con i redditi in discesa e l’insicurezza sociale diffusa, si deve delocalizzare la produzione dove il costo del lavoro è più basso. Si distrugge così il tessuto produttivo e la sapienza delle maestranze locali. La percezione del potere d’acquisto rimane immutata, ma, appunto, è solo una falsa impressione, poiché si impoverisce la nazione, scendono le tutele sociali e si alimenta il debito, privato e pubblico. Al fine di far digerire l’immigrazione di massa, viene propalata la credenza che i nuovi arrivati pagheranno le pensioni degli anziani oltre a riempire il vuoto delle giovani generazioni. I contributi sociali tendono a diminuire per i bassi salari e le forme contrattuali precarie imposte ai nuovi assunti. Poiché precarietà e redditi umilianti sono diventati la condizione normale dei lavoratori connazionali, a maggior ragione ciò vale per gli immigrati, sfruttare i quali è più facile, tanto più che vengono impiegati in settori “poveri” e molto spesso in nero. Da dove arriveranno dunque i miliardi necessari a tenere in piedi l’INPS?
Diventa economicamente arduo formare una famiglia, dice Gotti Tedeschi, “esattamente perché da trent’anni si è deciso di non fare figli”. E’ una tautologia che va spiegata: ci siamo convinti che saremmo diventati più ricchi senza figli, ma è avvenuto il contrario. La soluzione è tornare alla famiglia, ad una equilibrata natalità. La follia malthusiana, peraltro, cozza con i modelli di crescita più conosciuti, centrati sulla crescita della forza lavoro, cioè della popolazione, oltreché della produttività, della domanda e degli investimenti. Uno dei grandi errori delle teorie dominanti è proprio l’enfasi posta sull’offerta, senza interesse per la domanda, che domina invece il modello keynesiano.
I previsori hanno fallito clamorosamente, promettendo neve all’Equatore. Lester Thurow, un venerato maestro scomparso nel 2016, teorizzava che la crescita economica più elevata si realizzava senza crescita di popolazione. I fatti si sono incaricati di smentirlo: in Brasile, Cina, India la popolazione aumenta e accumulano ricchezza nuova, l’Europa segue il percorso contrario. L’attuale inverno demografico, divenuto avanzato autunno economico, è l’ideologia delle élite occidentali dal 1972, l’anno del rapporto del Club di Roma conosciuto con il titolo I limiti dello sviluppo. Dati ufficiali dell’ONU smentiscono le conclusioni neomalthusiane promosse a Vangelo dell’occidente: nel secolo XX la popolazione è cresciuta di quattro volte, la ricchezza disponibile di quaranta.
Inascoltata è rimasta la voce di Alfred Sauvy, grande demografo e valente economista, che collegò il benessere a un ragionevole incremento della popolazione, ricordando la fine ingloriosa dell’impero romano, che perse in meno di duecento anni la metà dei suoi abitanti. L’effetto delle scelte delle oligarchie è sotto i nostri occhi: aumentano i costi fissi per l’invecchiamento progressivo; meno giovani lavorano, minore produttività, inventiva e innovazione, nessuno risparmia poiché è la famiglia che produce la propensione al risparmio, mentre i solitari consumano. La delocalizzazione produttiva, penultima carta per tenere alti i consumi, diventa causa di disoccupazione e dumping sociale; non restano che l’immigrazione di massa e altro debito. Lo stesso inventore del concetto di PIL, Colin Clarke, avversò le scelte oligarchiche volte al calo demografico con rigorosi argomenti economici. Dimenticato, terminò la carriera nella remota Australia.
Illuminate è l’esempio americano. Gli Usa, per sostenere la politica di potenza imperiale, necessitano di tassi di crescita assai elevati. La natalità americana si è abbassata e non è stata compensata in termini economici dall’immigrazione. Non è restato altro che drogare il sistema con i mutui subprime. Quasi un terzo della crescita è generato dall’esplosione del debito privato, che ammonta ormai a quasi il 100 per cento del PIL statunitense. L’esito lo conosciamo, così come è noto che il debito aggregato (privato più pubblico) dell’Occidente (ancora) sviluppato, che ha preteso di aumentare la ricchezza senza avere figli, è aumentato del 50 per cento in pochi anni.
Occorre una visione di lungo periodo, di cui è incapace il nostro tempo, che misura ogni cosa in termini di effetti immediati. Sorprende, ma spiega molte cose l’analisi storica di alcuni dati: nel 1960 il PIL pro capite dei paesi ricchi era 26 volte superiore a quello dei poveri, esplodendo a 57 volte nel 1995. Solo cinque anni dopo, il rapporto precipitò a sole 7 volte. Nella prima fase del calo della natalità, l’aumento della ricchezza c’è stato, poiché l’equilibrio era ancora sostenibile, successivamente è crollato per il motivo opposto, unito all’irruzione di Cina e India. Sono ben 65 i paesi con un tasso di sostituzione della popolazione insufficiente a mantenerne inalterato il numero. Si tratta prevalentemente di nazioni occidentali o influenzate dal sistema di pensiero dominante da noi. Il collasso dei sistemi sociali si avvicina e determinerà squilibri socioeconomici ed esistenziali di difficile soluzione.
Abbiamo evitato, nella trattazione, di porci le domande di fondo, quelle relative al valore della vita umana, della continuità della nostra cultura e di riflettere sulla validità generale di un sistema imperniato sull’aumento del reddito economico, per sottrarci al condizionamento dei principi. Resta la necessità di interrogarsi sulla portata dei cambiamenti etici, culturali, comportamentali, civili prodotti dall’inverno demografico nel nostro piccolo angolo di mondo e sulle soluzioni concrete. Concludiamo con l’esortazione di Ettore Gotti Tedeschi a riempire le culle italiane: “per far tornare a crescere l’economia e produrre ricchezza da ridistribuire equilibratamente, necessaria per investire in tecnologia e produrre progresso nell’uso delle risorse scarse. “
Riscaldare il gelido inverno demografico italiano conviene. Sommessamente aggiungiamo noi, salva un’antica nazione dall’irrilevanza e dall’estinzione, permettendo alla nostra civiltà, alla nostra gente, di evitare un destino da capitolo dei libri di storia dedicati al passato.
Tratto da: Qelsi, Roberto Pecchioli, 31 ottobre 2018
Tratto da: Qelsi, Roberto Pecchioli, 31 ottobre 2018
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