Misericordia e condanna eterna

di Padre Giovanni Cavalcoli

E se ne andranno, questi, al supplizio eterno,
  i giusti alla vita eterna.  Mt 25,46

Una convinzione diffusa
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A molti oggi sembra inconcepibile, contradditorio e falso un Dio che premia alcuni con la vita eterna e castiga altri con una condanna eterna. Per questo si è molto diffusa l’idea messa in giro da Rahner che Dio perdona a tutti, e dà a tutti la grazia che salva. Dio fa misericordia a tutti. Come si concilia un Cristo “mite ed umile di cuore” con un Cristo che maledice i suoi nemici e li manda nel “fuoco eterno”? (Mt 25, 41).
La sua giustizia, rispondeva Lutero (cf commento a Rm 3,21), non è giustizia punitiva, ma coincide con la sua misericordia. Ora, l’esistenza di dannati è incompatibile con la misericordia divina. Dio è buono.  Il punire eternamente, invece, come dice Schillebeeckx, manifesta uno spirito vendicativo, che non si addice a Dio. Dio è amore. Ma l’amore dice tenerezza e pietà. Schillebeekx preferisce credere che i malvagi vengono annullati.

E’ sbagliato quindi concepire un Dio severo, sdegnato e adirato, perché questi sentimenti sono contrari all’amore, alla bontà e alla misericordia. Agire sotto la minaccia di un castigo eterno, spaventa, fa pensare a un Dio prepotente e tirannico e, come diceva giustamente Kant, porta ad una condotta servile, da schiavi e non da uomini liberi.
Concepire un Dio che condanna eternamente, vorrebbe dire concepire un Dio malvagio, che non è cristiano, ma proprio del dualismo manicheo. Sarebbe sproporzionata e ingiusta una punizione eterna per un peccato commesso nella finitezza del tempo. Chi crede in un Dio siffatto, crede in un Dio tirannico, e di conseguenza diventa prepotente verso gli altri e manca di misericordia, “giudica il fratello” ed odia i suoi nemici, contro il comando del Vangelo.
Tutti, continuano i rahneriani, siamo fatti per Dio e troviamo in Lui la nostra felicità. Dio vuol salvare tutti ed è onnipotente. Per Rahner, tutti, per conseguenza, in fondo, siamo buoni e in grazia (“cristiani anonimi”), anche se non lo sappiamo o crediamo il contrario (buonismo).
E’ dunque inconcepibile che questa sua volontà divina non si realizzi in tutti. Tutti sono in buona fede. Anche chi ci appare malvagio, in realtà, nel suo intimo, tende a Dio e raggiunge Dio. Al massimo, come crede Von Balthasar, l’inferno c’è, ma è vuoto.
Se pecchiamo, dobbiamo credere sempre che Dio ci perdona. Il peccato è inevitabile. Ma non dobbiamo preoccuparci. Non occorre far penitenza e sperare nelle opere, perchè è inutile e conduce alla presunzione di farci dei meriti. Occorre invece credere umilmente e fermamente, come ci insegna Lutero, che Dio comunque ci perdona con la grazia di Cristo.

Eppure non è così
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Enzo Bianchi ha detto di recente che la misericordia divina appare cosa folle e scandalosa. Può essere che per qualche egoista o duro di cuore, che non ascolta le esortazioni del Papa, la cosa sia così. Ma cosa ben più scandalosa, anzi impossibile e blasfema, pare a molti credere che Dio possa essere misericordioso con alcuni, salvandoli, mentre condanni altri ad una pena eterna.
Eppure Nostro Signore Gesù Cristo nel Vangelo insegna che è proprio così, insegnamento confermato dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa fino ai nostri giorni . Vediamo allora quali premesse occorrono per capire ed accettare con fede l’insegnamento di Cristo, cosa esso significa e come è possibile ciò che Egli ci dice.
Bisogna considerare le seguenti cose: 1. Abbiamo un rapporto volontario e libero con l’eternità; 2. È  giusto che al peccato segua la pena; 3. La perdita di Dio, Bene eterno, è un danno eterno; 4. Con la morte l’anima non può più meritare; 5. La superbia ci porta a scegliere contro Dio; 6. Dio, per misericordia, predestina o sceglie (“gli eletti”) alcuni per la salvezza e di fatto li salva, mentre per giustizia castiga altri con l’inferno. 7. Occorre alternare, sull’esempio di Dio, l’uso della misericordia a quello della severità. 

Tesi I
L’uomo, in quanto spirito, ha un rapporto volontario e libero con l’eterno.
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Quando qui si dice “eterno”, non ci si riferisce necessariamente al Dio eterno, sommo ed infinito Bene, Fine ultimo, ma ci riferisce all’eternità come tale, qualcosa che dura eternamente, in senso metafisico, non necessariamente morale o religioso o teologico. Questa è la prima cosa da capire.
Dio crea l’uomo orientandolo a Sé come fine ultimo. Tuttavia Egli, avendolo dotato di libero arbitrio, non vuole che tenda a Sè deterministicamente, irresistibilmente e necessariamente, in forza della sua natura, come tutti gli altri enti inferiori, ma ha voluto proporsi alla creatura spirituale, uomo ed angelo, come oggetto di possibile libera scelta, accettando quindi anche di essere respinto o rifiutato o addirittura negato, come avviene nell’ateismo.
Erra dunque Rahner, quando, prendendo a pretesto questa inclinazione o propensione innata e naturale verso Dio, afferma che ogni uomo, in quanto uomo, è necessariamente in grazia di Dio, oggetto della divina misericordia, per cui di fatto, attratto da Dio, sceglie Dio come fine ultimo, tende sempre a Lui e quindi va in paradiso. La pena infernale è una possibilità astratta, che di fatto non si realizza mai.
 Rahner confonde la necessaria ordinazione, voluta da Dio, dell’uomo a un fine ultimo ed eterno o ad un assoluto, comportante di per sé la possibilità di scegliere o no Dio come proprio fine ultimo, con una inesistente tendenza di fatto universale di tutti gli uomini verso la salvezza e la beatitudine del cielo. 
Di fatto ogni uomo tende necessariamente all’eternità o al bene in generale. Ma questo non vuol dire ancora che tutti tendano di fatto al medesimo bene concreto, fosse pure Dio,  perchè sta ad ognuno scegliere il valore concreto nel quale soddisfare il proprio bisogno di eternità. Certo, il vero Eterno è Dio, ma ognuno ha la possibilità di eternizzare il finito e di finitizzare l’Eterno. 
Non c’è dubbio che l’eternità è innanzitutto proprietà divina. Secondo S.Tommaso, coincide con Dio stesso  e, intesa in senso forte, riferita all’essere, è attributo esclusivamente divino. Nessuna creatura, quindi, propriamente, può essere eterna. Quando Cristo ci promette la “vita eterna”, non intende dire che diventeremo eterni, perché questo sarebbe panteismo. Vuol dire solo, come spiega S.Tommaso , che con la grazia noi in paradiso parteciperemo per sempre dell’eternità divina.
Ma qui, adesso, a prescindere da ciò, dobbiamo fare una preliminare  considerazione metafisica e osservare che, come può esistere per il nostro spirito, fatto per l’eterno, un bene che dura in eterno, così, corrispettivamente e logicamente, deve poter esistere un male o una pena che dura in eterno o per sempre, data appunto dalla mancanza di questo bene.

Tesi II.
È  giusto che al peccato segua la pena.
La giustizia come virtù cardinale prescrive che ad ognuno sia dato secondo i suoi diritti e i suoi meriti (unicuique suum). “Ciascuno sarà ripagato secondo le sue opere” (Pr 12,14). Giustizia dunque vuole che all’onesto spetti il premio, e al malfattore spetti il castigo. Per questo, dato che Dio è sommamente giusto e sommo legislatore, viene spontaneo pensare, a parte la rivelazione biblica, da un semplice punto di vista della religione naturale, che Dio premi chi obbedisce alle sue leggi e ai suoi comandamenti e castighi invece i ribelli e i disobbedienti.
 Certo, tutti ci rendiamo conto di quanto sia difficile e a volte impossibile, nonostante i nostri sforzi, rispettare la legge divina ed evitare il peccato, a causa della nostra debolezza conseguente al peccato originale. Ma è qui allora che gioca la divina misericordia, la quale ci dona la grazia necessaria per compiere il bene. 
Siccome però, dopo il peccato originale le forze della ragione e del libero arbitrio non sono totalmente distrutte, contrariamente a quanto pensava Lutero, da qui il fatto che Dio continua ad esigere le nostre opere, sia pur col soccorso della grazia, per meritare la vita eterna. Diversamente, ci attende il castigo infernale, il “supplizio eterno”. 
Comunque, occorre tener presente che un altro principio etico indispensabile per capire ed accettare l’esistenza dell’inferno, è il fatto che al delitto deve seguire il castigo. Il male di colpa causa il male di pena. L’azione cattiva crea un disordine che deve essere ristabilito o una mancanza che deve essere tolta o un difetto che deve essere corretto o un danno che deve essere riparato o una sofferenza che deve essere eliminata. 
Il delitto o il peccato è una infrazione della legge che regola e disciplina il bene comune. Il criminale o peccatore peccando si sottrae all’ordine che vige nella comunità. Giustizia vuole che vi sia reintegrato. 
L’irrogazione della pena non spetta al privato, ma  al custode del bene comune, che è la pubblica autorità, che costringe il peccatore a tornare in quell’ordine sociale che egli ha volutamente violato. Così all’eccesso di libertà nel prevaricatore, che ha causato il peccato o delitto, corrisponde la coercizione o punizione, che lo riconduce  nell’ordine. 
Infatti, all’estraneazione di se stessi dall’ordine morale provocata dal delitto o peccato, corrisponde la riparazione o espiazione, che è il rientro o restituzione del peccatore pentito all’interno dell’ordine, di tanto quanto esso era in precedenza uscito dall’ordine. Questa è la regola dell’entità della pena in proporzione dell’entità del delitto o peccato. La pena ricostituisce l’ordine in quattro modi o secondo quattro finalità. Può essere rieducativa, deterrente, espiativa e afflittiva. 
La prima reintroduce il peccatore nell’ordine; la seconda scoraggia altri ad imitarlo; la terza lo purifica; la quarta difende l’ordine che il peccatore ha violato. La pena dev’essere proporzionata al delitto: nel caso dell’inferno, il peccato mortale merita la pena dell’inferno, perché il peccato impedisce al peccatore il conseguimento del suo fine ultimo, che è Dio eterno. Qui la pena è meramente afflittiva, perché non è né rieducativa, né espiativa, ma semmai è solo deterrente. 
La pena o punizione comporta il dolore fisico o spirituale. La pena infernale del fuoco è un’immagine della punizione interiore. Se è espiativa, si chiama penitenza. La pena può esser tolta sia dal potere civile, per clemenza, che da quello ecclesiastico, per misericordia. Il figliol prodigo e l’adultera pentita non sono puniti, perchè in essi Dio ha voluto mostrare in modo speciale la sua misericordia. Ma normalmente il peccatore deve subire una pena. In lui la misericordia si manifesta con la remissione del peccato. Viceversa, in campo civile ed ecclesiastico, il giudice non è autorizzato a rilassare la pena, ma deve far applicare la legge .
Il castigo divino, per la Bibbia, anche se spesso viene rappresentato come atto di un giudice, che, a sua discrezione, dal di fuori del reo, gli  irroga la pena, in realtà, se vogliamo cogliere il vero significato del “castigare”, il castigo non è altro che la sventura, il danno e il dolore che lo stesso peccatore si tira addosso con la sua stoltezza, disobbedendo a Dio, il Quale, come dice Ezechiele, “non vuole affatto la morte del peccatore, ma che si converta e viva ( cf 33,11). 
L’idea di una divinità che uccide, fa orrore alla Bibbia, appunto perché il Dio biblico è il Dio della Vita e non vuole altro che le sue creature vivano  sane e felici. La punizione divina non è altro che la conseguenza del fatto che Dio rispetta la scelta del peccatore, anche se questa è contro Dio. Del resto, neppure Dio può fare che il male non produca il male, - era l’idea assurda di Hegel -; benchè, a cose fatte, possa ricavare il bene dal male.
Ipotizzare la punizione divina come una meschina e rancorosa vendetta di chi è stato scottato da un suo nemico, come crede Schillebeeckx, riflette solo la meschinità della mente di chi ipotizza una cosa simile, e vuol dire non aver capito niente del concetto biblico del castigo divino. 
La minaccia del castigo divino, che pure troviamo anche in certi detti di Cristo, genera nel credente un salutare timore, che lo aiuta ad evitare il peccato, così come chi soffre di cuore e rischia l’infarto, è diligentissimo nell’ascoltare gli avvertimenti del cardiologo e nel metterli in pratica.
 Del resto l’avvertimento divino o dell’autorità non toglie la libertà e il disinteresse nella nostra scelta; al contrario la indirizza al bene mostrando i danni a cui andiamo incontro, se non scegliamo il bene. Inoltre, Dio ci spiega anche il perché di questi danni. 
Non si tratta di obbedire ciecamente, come cani che temono il bastone, ma come persone responsabili, che sanno ciò che fanno e perchè lo fanno. Non si tratta della minaccia odiosa e terrorizzante del ladro che ci punta addosso la pistola con le famose parole “o la borsa o la vita!”, ma è l’avvertimento motivato di chi, conoscendo le cose meglio di noi, merita fiducia e parla per il nostro bene.
I comandamenti divini, per la Bibbia, come è noto, sono comandamenti di vita; sicchè il peccato è un atto che causa la morte, come uno che bevesse del veleno o si suicidasse. Per questo, Dio, rivolgendosi ad Israele, dice: “Se ti perdi, è colpa tua, Israele; da me ti viene l’aiuto” (perditio tua, Israel; in me auxilium tuum, Os 13,9, vulg.) . 
Come dice la Scrittura, “Il male dell’uomo ricade gravemente su chi lo fa” (Qo 8,6). “Il peccatore muore per la malvagità che ha commesso” (Cf Ez 33, 13). In ogni caso, chiunque commette il male, soprattutto se ne è cosciente, non può essere nella pace: “non c’è pace per gli empi” (Is 57,21). E’ già questo un terribile castigo interiore, che solo un forte orgoglio può sopportare spavaldamente, anche se il peccatore non lo dà a vedere. 
Certo, la giustizia umana può non raggiungere il malfattore. Ma egli, se non si converte, non sfuggirà alla giustizia divina. Non gli basta credere che l’inferno non esiste, per non andare all’inferno. Il Qoelet, come ogni onesto uomo della strada, nota che “sulla terra vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dagli empi con le loro opere; e vi sono empi, ai quali tocca la sorte dei giusti con le loro opere” (8,14). Tuttavia, egli è certo che un giorno Dio stesso farà giustizia: “Non sarà felice l’empio e non allungherà come un’ombra i suoi giorni, perché non teme Dio” (v.13).
Il timor di Dio è fattore indispensabile del nostro cammino di salvezza. Esso viene trascurato in nome di una falsa confidenza, oggi purtroppo molto diffusa. Questo timore non è timore che Dio possa deluderci, ma deve riguardare noi stessi, perchè di noi stessi, peccatori come siamo, non possiamo fidarci. 
Da qui le esortazioni della Scrittura alla vigilanza ed alla cautela. E’ il timore che nasce dall’amore, in quanto timore  di offendere la persona amata. E’ la riverenza davanti alla somma Maestà divina, che nasce dal senso del Sacro e del Trascendente, oggi purtroppo spesso assente.
Vana è dunque la furbizia e la sicumera degli empi, che, continuano a peccare vedendo che non sono puniti, ma a volte addirittura onorati (v.11). Per questo, avverte il Siracide: “Non dire: ‘la sua misericordia è grande, mi perdonerà i molti peccati’, perché presso di lui ci sono misericordia ed ira, il suo sdegno si riverserà sui peccatori” (Sir 5.6), e magari quando meno se l’aspettano, come ci avvertono sempre i profeti. E’ con Lutero che nasce questa illusione di poter peccare liberamente senza essere castigati, dispensati dalle opere, con la “fede” di essere sempre perdonati (“pecca fortiter et crede firmius”).

Tesi III
Perdere Dio è un danno eterno
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Bisogna notare che l’agire umano, in quanto spirituale, non può non rapportarsi con l’eterno e non può non sfociare in un destino di eterna durata. Se l’uomo sceglie per il bene, agendo rettamente, si congiunge eternamente col Bene eterno che è Dio. Se invece, contravvenendo volontariamente all’inclinazione ed alla vocazione della sua stessa natura, si volge al peccato, il suo destino è quello di essere per sempre privato di quel vero bene eterno che è Dio. La prima alternativa costituisce il paradiso, la seconda, l’inferno.
Mentre la beatitudine celeste è l’esperienza della divina misericordia, la pena dell’inferno è l’esperienza della propria miseria priva del beneficio della divina misericordia. Il beato sente Dio come amico; il dannato lo sente come nemico. Il beato, che si è affidato alla sua misericordia, lo sente come benefattore; il dannato lo sente come dannoso. 
Il beato si sente liberato da Dio; il dannato si sente oppresso, come se Dio fosse un tiranno. Il beato ama tutto quello che Dio ha fatto; il dannato lo odia. Al beato Dio arreca gioia; il dannato prova disgusto. Il beato, che ha conseguito il suo Bene, è più che soddisfatto; il dannato, privo di quel Dio, del quale avrebbe bisogno, sperimenta una spaventosa miseria. Il beato è liberato dalla morte; il dannato convive con la morte. Il beato, umilmente aperto alla verità, ne gusta la dolcezza. Il dannato resta per sempre viscidamente inguaiato nella doppiezza e nella menzogna, perché ha odiato la lealtà, l’onestà e la limpidezza. 
Il dannato resta attaccato ai suoi idoli ed alle sue idee, benchè ne conosca la vanità e la falsità. Li preferisce a Dio ed alla Parola di Dio. Egli, orgogliosamente centrato su se stesso, considerandosi la sorgente della verità, è nelle tenebre, prigioniero di se stesso, chiuso in se stesso, e privo della luce che viene da Dio. 
Il beato, invece, ha finalmente trovato la certezza, la tranquillità e la sicurezza. Sente di poggiare per sempre sulla roccia, difeso da ogni male. Il dannato si dibatte disperatamente nella contraddizione e nel conflitto interiori, sente di precipitare in un abisso, mancandogli un punto di appoggio, privo della forza e della stabilità che vengono da Dio, sperimenta una continua e profonda inquietudine, privo della pace che viene da Dio. 
E’ tormentato esteriormente dalla pena del fuoco ed interiormente dal rimprovero e dal rimorso della coscienza. Ma il suo folle orgoglio lo spinge ad infischiarsene, perché disprezza il giudizio divino e ritiene di aver ragione lui. Si sente un martire della tirannia divina. La sua pena è il prezzo del suo empio martirio.
E’ quindi perversamente soddisfatto di quello che ha fatto. Non si rammarica affatto, come alcuni credono ingenuamente. Se Dio gli desse la possibilità, lo rifarebbe ancora, per farsi beffe di Lui. Se credesse in Dio, lo ringrazierebbe, perché gli ha permesso di fare quello che ha voluto. “Quel tiranno – egli pensa – non mi ha costretto ad andare in paradiso a leccargli i piedi”. 
L’ira divina che pesa su di lui non lo turba più di tanto. Del resto, Dio nella sua bontà e misericordia, come osserva S.Tommaso, non lo castiga tanto quanto meriterebbe, mantenendolo in vita  e presiedendo con sapienza e giustizia alla città infernale. Il dannato è spavaldo e disprezza la pena dell’inferno. Benchè umiliato da Dio e svergognato, come Prometeo, il dannato continua a guardare il cielo con disprezzo in tono di sfida. 
Per lui l’inferno è nulla. Ha conseguito quello che ha voluto: ignorare Dio ed affermare se stesso, ostinato com’è nel suo peccato. Non è affatto pentito  e non ha bisogno di essere compassionato né di alcuna misericordia, perché, a sentir lui, non ha fatto niente di male, ed anzi è fiero di quel che ha fatto, come disse Adolf Eichmann il giorno prima dell’esecuzione capitale.

Tesi IV
Con la morte, l’anima non può più meritare
Il merito è una conseguenza psicologica necessaria e dovuta dell’esercizio del libero arbitrio, per la quale conseguenza all’atto compiuto spetta un compenso o una retribuzione fisica o morale da parte di colui per il quale l’opera o l’azione è stata compiuta.
 Il merito acquista un carattere morale, quando si distingue un merito al premio da un merito al castigo. L’uomo può meritare sia davanti agli uomini che davanti a Dio, benchè con una notevole differenza, che non toglie tuttavia l’analogicità di questa nozione fondamentale della morale, senza la quale non esisterebbe il libero arbitrio. E di fatti Lutero è coerente nel negare l’uno e l’altro, benchè, forse, negando il merito davanti a Dio, intendeva sottolineare appunto quella differenza.
Nella vita presente l’uomo, col suo libero agire, sceglie definitivamente e per sempre, al momento della morte, il contenuto formale del suo fine ultimo ed assoluto, ovvero sceglie il suo eterno destino. 
Se prende per fine Dio e orienta a Lui le proprie azioni nell’adempimento della sua volontà, merita il paradiso e si salva; se invece prende per fine la propria volontà contro quella divina, sceglie contro Dio, merita l’inferno e si danna. In ogni caso riceve da Dio la giusta ricompensa delle sue opere. Nel primo caso, però, la ricompensa è effetto della misericordia divina, mentre nel secondo gioca solo la giustizia.
S.Tommaso  fa notare altresì che c’è questa differenza tra il merito davanti agli uomini e quello davanti a Dio, che, mentre il compenso per un’azione o per un lavoro compiuti per gli uomini meritano un compenso a stretto rigor di giustizia, considerando l’uguaglianza di natura esistente fra gli uomini, “tra Dio e l’uomo vi è la massima disuguaglianza. Essi distano infatti all’infinito, e tutto il bene che l’uomo possiede viene da Dio. Per cui, non vi può essere giustizia”, ossia merito, “dell’uomo nei confronti di Dio secondo un’uguaglianza assoluta, ma secondo una certa proporzione, in quanto l’uomo e Dio operano secondo il modo proprio. 
Ora, il modo e la misura della virtù umana provengono da Dio. E pertanto il merito dell’uomo presso Dio non può esistere, se non nella presupposizione dell’ordinamento divino, così, cioè, che l’uomo, per mezzo delle sue opere, consegue da Dio quasi come retribuzione ciò in vista di cui”, ossia il premio eterno, “Dio gli ha dato la virtù di operare” .
 Soltanto Cristo ha meritato per noi la salvezza per stretta giustizia, in quanto Figlio di Dio. Noi, invece, solo in forza dei suoi meriti possiamo meritare con le nostre opere la vita eterna, non però in modo degno e proporzionato come Lui, ma solo in modo congruo e conveniente, in base alla benevolenza ed alla misericordia del Padre.
Esiste questa differenza essenziale tra il meritare il paradiso e il meritare l’inferno, che mentre, come insegna il Concilio di Trento , il merito del paradiso è dono della divina misericordia, il meritare l’inferno dipende esclusivamente dall’uomo.
Nell’al di là l’anima non può più meritare. Infatti il meritare è quel rendersi degni presso l’autorità di una sanzione, che può essere onorifica o penale, premio o castigo, che è resa possibile dal fatto che l’anima è legata al corpo nella vita presente, nella quale l’anima deve fare la sua scelta definitiva o per Dio o contro Dio.
Col sopravvenire della morte, l’anima si separa dal corpo. Resta indubbiamente dotata del libero arbitrio e può esercitarlo riguardo alle creature e a se stessa, ma  non può più esercitarlo nella scelta o meno di Dio, perché questa è una scelta definitiva e irrevocabile, che al momento della morte l’anima fa per sempre, senza poter più avere ripensamenti o tornare sulla sua scelta, come aveva possibilità di fare in vita. In questo momento, infatti, inizia il tempo – detto propriamente “eviternità”  - della retribuzione eterna, paradiso o inferno. Il purgatorio è un periodo di preparazione al paradiso.
L’anima può oscillare riguardo a Dio durante la vita terrena, perché in quelle condizioni Dio non le appare svelatamente ed immediatamente nella sua infinita amabilità, sì da obbligarla ad aderire a Lui in modo assoluto e senza incertezze, ma la seduzione del peccato e del demonio esercita su di lei un certo influsso, che tende ad allontanarla da Dio. 
Da qui la possibilità ora di aderire a Dio, ora di rifiutarlo. Invece, al momento della morte, nel quale l’anima si separa dal corpo, Dio Si offre con chiarezza per l’ultima volta come oggetto di scelta. Per l’ultima volta Egli offre la sua misericordia salvifica. E’ l’ultima chance. Se la misericordia è rifiutata, resta la giustizia, ossia la dannazione.
 A questo punto, l’anima può scegliere per sempre con totale certezza, per cui, di ciò che sceglie – o Dio o contro Dio -, non potrà non essere per sempre certa, a differenza di quanto avveniva nella vita terrena, durante la quale, per l’oscurità dell’esistenza e l’oscillazione della volontà, poteva sempre mettere in discussione la scelta fatta.
    
Tesi V
La superbia porta a scegliere contro Dio
Alcuni si domandano come è possibile che uno scelga di assoggettarsi ad una pena eterna. Il punto non è questo. Nessuno è così folle da desiderare di patire le pene dell’inferno. E’ chiaro che queste pene sono subìte contro voglia. Ma il fatto è che esse sono la conseguenza necessaria e logica di quella ribellione a Dio, che conduce al peccato mortale, morendo nel quale si va all’inferno.
 Chi merita l’inferno, vuole una libertà non nell’ambito della legge divina, ma fuori di essa. Fa Dio di se stesso. Nega Dio per sostituirsi a Lui. Pretende di fruire di una libertà assoluta ed esser legge a se stesso come Dio. Chi merita l’inferno sa che lo attende una pena eterna . Ma piuttosto che star con Dio felice in paradiso, è talmente attaccato alla sua volontà che preferisce accontentarla all’inferno, piuttosto che sottometterla a Dio in paradiso. Il reprobo fa prevalere il gusto del proprio volere all’oggetto stesso del volere. Sentirsi libero, indipendentemente da ciò da cui e in cui si è liberi.
“Dio resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili” (Gc 4,6). “Ha disperso i superbi nel loro cuore, … ha innalzato gli umili” (Lc 1, 51-52). Dio non fa misericordia a chi non la vuole o ritiene di non averne bisogno. Con questi è severo, ma fa grazia a chi si avverte povero e bisognoso e, pentito ed umile, la desidera.

Tesi VI
Dio, per misericordia, predestina o sceglie alcuni (“gli eletti”) per la salvezza e di fatto li salva, mentre per giustizia castiga gli altri con l’inferno.
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Il Dio biblico non è un semplice principio cosmico, come potrebbe essere una fonte di luce o di calore. Dato che è anche creatore degli enti personali, non può non essere un Dio personale, che come tale, ha un potere di scelta e sceglie questa persona e non quella. La Bibbia parla di moltissime scelte divine, concernenti la missione di particolari persone. E coloro che sono scelti, sono gli “eletti”. La scelta delle scelte è quella stessa di Gesù Cristo.
Scegliendo la persona, la destina ad una missione. Ecco la predestinazione . Destinandola ad una missione, la chiama per rivelarle quella missione. Ecco la vocazione. Una volta che l’eletto è alla presenza di Dio, Egli gli rivela la sua volontà. “Parla, Signore, chè il tuo servo ti ascolta”. 
Ma poiché la missione sarebbe al di sopra delle forze umane, ecco che Dio la giustifica e la glorifica l’eletto con la sua grazia e con i suoi doni. Questo tracciato lo troviamo nella Lettera ai Romani: “Quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,30). Da notare che Paolo usa un pronome partitivo (“quelli che”), il che fa chiaramente intendere che non tutti gli uomini sono predestinati, come potrebbe sembrare da altri passi dell’Apostolo. 
La Chiesa ha insegnato più volte che non esiste predestinazione divina all’inferno. Vorrebbe dire che Dio è causa del peccato, cosa assurda, se riflettiamo al fatto che Dio è bontà infinita. Chi ci va, porta solo su di sé la colpa di tale scelta. Invece per quanto riguarda la salvezza, indubbiamente lo scegliere Dio da parte dell’uomo, è autentica scelta responsabile. E tuttavia, l’atto di questa scelta, sostenuta dalla grazia, è opera divina. E appunto in ciò sta la predestinazione.
Il Concilio di Trento ci ricorda il mistero della predestinazione un due luoghi: primo , quando insegna, contro Lutero, che non possiamo esser certi per fede di essere nel “numero dei predestinati”, ma possiamo solo sperarlo, in base alle attuali buone opere; secondo , quando insegna che la predestinazione riguarda solo “coloro che sono predestinati alla vita eterna” e niente affatto i dannati, i quali si dannano solo per la propria volontà e non per volontà divina.

Tesi VII
Occorre alternare l’uso della misericordia a quello della severità.
Misericordia e severità sono due virtù che dipendono dalla carità , che presiede alle virtù teologali (fede e speranza), sul piano della grazia, e dalla prudenza , che presiede alle virtù morali o cardinali (giustizia, fortezza e temperanza) sul piano della ragion pratica. In Dio quelle due virtù sono l’espressione della sua provvidenza , con la quale Egli provvede saggiamente all’ordine e buon andamento  dell’universo, che comporta l’esistenza del paradiso, dell’inferno e del purgatorio.
Mentre carità e prudenza vanno praticate in ogni momento e circostanza dell’agire cosciente, naturale e soprannaturale, perché ne sono l’anima, la misericordia e la severità devono essere praticate, nel dovuto modo e misura, nelle circostanze opportune, cioè quando le varie situazioni lo richiedono.
Con la carità noi mettiamo in pratica le verità di fede concernenti l’amore di Dio del prossimo. Con la prudenza, ordiniamo ragionevolmente le nostre azioni (recta ratio agibilium). 
La misericordia è quella virtù per la quale Dio o l’uomo sovvengono, senza supporre meriti per un’opera compiuta o esigere compensi, ai bisogni fisici e spirituali dei poveri, dei miseri, dei pentiti e dei sofferenti. 
La severità è quella parte della giustizia, con la quale, utilizzando un’ira moderata , difendiamo l’onore di Dio o  ci difendiamo o difendiamo gli altri affidati alle nostre cure, da un’ingiusta aggressione o insorgiamo con parresia e coraggio profetico contro l’ingiustizia.
Altra cosa da considerare. Un conto è la misericordia divina, considerata astrattamente, come mera possibilità dipendente dall’onnipotenza , de potentia Dei absoluta; e un conto è la misericordia, così come di fatto Dio, secondo la Rivelazione, la pratica nella storia della salvezza. Nel primo senso essa è infinita. Invece, nel secondo senso, essa incontra un limite al suo libero effluire da Dio, nell’ostacolo, che vi pone la creatura con la sua chiusura alla stessa misericordia, provocata dal peccato.
Si può parlare tuttavia anche di una misericordia divina di fatto infinita, nel senso che qualunque suo atto deve attraversare quella distanza ontologica infinita, che dal creatore va alla creatura. Quindi essa è infinta in se stessa come atto divino, ma finita, un relazione alla nostra finitezza e alla nostra peccaminosità. 
C’è il tempo per la misericordia e c’è il tempo per la severità. Occorre vedere di momento in momento quali sono i bisogni delle anime. Misericordia e severità sono da usare al momento giusto, con chi le merita o ne ha bisogno, perché, se sono usate al momento sbagliato, con una persona sbagliata, si ottiene un effetto controproducente. “Non è bene usar riguardi all’empio” (Pr 18,5). Ma occorre anche non essere severi con chi merita pietà e comprensione.
Severità e misericordia sono legate e connesse tra loro. L’una richiede l’altra. Per esempio, Israele è stato oggetto di misericordia perché Dio è stato severo con gli Egiziani. Se vogliamo liberare un popolo oppresso, dobbiamo essere severi verso il dittatore. Nel dubbio se essere severi o misericordiosi, è meglio essere misericordiosi. E’ facile sbagliare nel giudicare; eppure bisogna farlo, quando abbiamo competenza ed  elementi sufficienti; sempre pronti a correggerci, se ci accorgiamo dell’errore.
Se il lettore benevolo vorrà accettare il paragone e se esso non sembra sconveniente, ovviamente mutatis mutandis, mi sia permesso di paragonare il rapporto tra misericordia e severità rispettivamente ai toni alti e a quelli bassi della tastiera di un pianoforte. Come Dio, il grande Pianista, dobbiamo imitarlo sapendo dosare ora i primi toni, ora i secondi, a seconda delle esigenze dello spartito. Si deve sempre e comunque sempre suonare bene il piano. Ma ciò comporta appunto l’abilità nel dosaggio dei toni. La bellezza della sonata nasce solo dal contemperamento dei diversi toni tra di loro.
Mentre dunque si deve essere sempre e dovunque caritatevoli e prudenti con tutti, non si può essere misericordiosi sempre, con chiunque, in qualunque circostanza. La stessa carità e la stessa prudenza ci chiedono di saper essere ora misericordiosi, ora severi. C’è chi è in buona fede e c’è chi è in mala fede. C’è chi ha retta intenzione e c’è chi è perverso. C’è chi è correggibile e c’è chi è incorreggibile. C’è chi è scusato e c’è chi non è scusabile. C’è la malizia e la debolezza. Non possiamo comportarci allo stesso modo con gli uni e con gli altri.
Chi non sa cavarsela in queste cose è bene che non solo non faccia il vescovo, ma neppure il genitore o il maestro elementare. Non possiamo certo separare il grano dal loglio in senso escatologico; ma ciò non ci esenta dal dovere di assumere le nostre responsabilità operando un prudente discernimento ed agendo di conseguenza.
Bisogna evitare il relativismo opportunista e infingardo di chi, tenendosi defilato o per paura o per ragioni di comodo, non corregge il deviante, scambiando il suo agire per una semplice “scelta diversa”, e facendo la figura dello spirito aperto e liberale. Come bisogna evitare l’assolutismo rigido e intollerante di chi non accetta mai scuse e giudica affrettatamente colpevole chi magari è in buona fede o chi si regola secondo diversi criteri di azione. 
La riduzione della giustizia a misericordia, come abbiamo avuto modo di vedere nel corso di questo articolo, le falsifica entrambe. Riportiamo come esempio di questa incresciosa confusione alcune affermazioni fatte da Raniero Cantalamessa nella predica dell’ultimo Venerdì Santo 2016, pronunciata nella basilica di San Pietro: “la giustizia di Dio è l’atto mediante il quale Dio rende giusti, a lui graditi, quelli che credono nel Figlio suo. Non è un farsi giustizia, ma un fare giusti. Lutero ha avuto il merito di riportare alla luce questa verità, dopo che per secoli, almeno nella predicazione cristiana, se ne era smarrito il senso. E’ di questo soprattutto che la cristianità è debitrice alla Riforma”. Verrebbe fatto di dire: “L’abominio della desolazione nel luogo santo!”.
Il grave errore di Cantalamessa consiste nella pretesa di definire in modo generale la giustizia divina come fosse sempre solo misericordia, ricavando in modo del tutto scorretto, con una illecita estrapolazione, dal famoso passo di Rm 3,21, dove effettivamente l’Apostolo presenta la misericordia divina come “giustizia”, una falsa coincidenza sic et simpliciter tra giustizia e misericordia, negando il valore proprio della giustizia. 
Cantalamessa, mostrando un’esegesi capziosa, non tiene conto del fatto che è solo in quel passo che si ha identità di significato. Ma in mille altri passi della Scrittura è chiarissima la differenza tra giustizia e misericordia.
Il Concilio di Trento insegna che noi dobbiamo tenere davanti agli occhi sia la misericordia che la severità di Dio: “Poiché “pecchiamo in molte cose” (Gc 3,2), ognuno deve tenere davanti agli occhi sia la misericordia e la bontà, che la  severità e il giudizio, né deve giudicare se stesso, anche se non è consapevole di nulla, perché ogni vita umana non dev’essere esaminata e giudicata con umano giudizio, ma da Dio, che “illuminerà i segreti delle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori ed allora ciascuno riceverà la sua lode da Dio” (I Cor 4,4s), il quale, come sta scritto, renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Rm 2,6).
I Vescovi, in nome della carità, della prudenza, della giustizia e della misericordia, devono aiutarci a distinguere i credenti dagli eretici e i giusti dagli empi. E’ vero che la chiara separazione tra il grano e il loglio avverrà solo alla fine dei tempi. Ma questo non deve essere un pretesto perché le autorità fuggano dalle loro responsabilità.
L’eretico non è un “diversamente credente”, così come il malato non è un diversamente sano. Il peccatore non è semplicemente uno che ha fatto una scelta diversa, ma uno che rovina se stesso e gli altri. L’eretico è l’eretico e il malato è il malato. Il nostro linguaggio dev’essere “sì, sì, no, no”, il resto appartiene al maligno”.
Ad ogni modo, non c’è dubbio che la misericordia deve prevalere sulla severità. Alla fine tutta l’opera divina della salvezza si risolve nella misericordia, come spesso ci dice Papa Francesco, che riecheggia S.Paolo: “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32). 
Il che non vuol dire che la disobbedienza non resti in alcuni e, come tale, a detta di Cristo stesso, non debba essere punita. Paolo vuol dire solo che la misericordia è stata offerta anche a coloro che l’hanno rifiutata e perciò si sono perduti.
Resta tuttavia che Dio fa prevalere la misericordia sulla severità, ed altrettanto vuole che facciamo noi, perché sa bene che noi pecchiamo solitamente più per fragilità ed ignoranza, che per malizia e cattiva volontà. Per questo Dio dice a Mosè: “Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi” (Es 20, 5-6).
Queste cose i Santi le hanno sempre sapute e non c’era bisogno che arrivasse il Concilio Vaticano II per insegnarcele, anche se esso ci ha fatto conoscere la misericordia divina meglio di quanto fino ad allora la Chiesa avesse saputo. 
Il difetto di oggi, come è ormai evidente, anche per i danni che produce, è il rifiuto della severità, a nome di una misericordia, che, proprio per questo rifiuto, falsifica se stessa e genera una severità peggiore di quella del passato. Allora almeno si perseguitavano gli eretici; oggi si perseguitano i cattolici.
Non dobbiamo scandalizzarci dei toni severi del “Gesù dolce, Gesù amore”, perché anch’essi vengono dalla sua infinita carità. E ricordiamoci piuttosto delle sue parole: “beati coloro che non si scandalizzeranno di me” (Mt 11,6).
Padre Giovanni Cavalcoli - Varazze, 212 maggio 2016

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