Messa del crisma - anno B

Il mistero del sacerdozio della Chiesa sta nel fatto che noi, miseri esseri umani, in virtù del Sacramento dell’Ordine, possiamo parlare con il suo Io vivo: in persona di Cristo per il bene di tutti e di tutto 

Il Giovedì Santo è il giorno in cui il Signore diede ai Dodici il compito sacerdotale di celebrare, nel pane e nel vino, il Sacramento cioè l’attualizzazione nello spazio e nel tempo, fino al suo ritorno, quello che è avvenuto una volta per sempre sulla Croce: attraverso la diversità sacramentale il suo corpo offerto in sacrificio, il suo sangue versato in
remissione dei peccati. Per celebrare la Messa il sacerdote deve fare la comunione sotto le due specie  come sacramento sacrificale. Al posto dell’agnello pasquale e di tutti i sacrifici dell’Antica Alleanza, dell’Antica Storia di amore di Dio con il suo popolo, subentra il farsi dono del suo Corpo e del suo Sangue, il dono di se stesso: Dio ci ama sul serio. Non da sentimentale o da esteta, ma, ma assumendo un volto umano, in modo che tutte le conseguenze vengano tratte da quella affermazione che, a sua volta non  ha una origine umana, ma viene dalla parola di Dio. Cosa significa questa serietà dell’amore? Significa che l’uno, attraverso il suo amore, partecipa al destino dell’altro. Fintando vado incontro all’altro solo con la stima e la benevolenza, dico: lui, non io, io, non lui. Una parete ci separa. Nel momento invece in cui io lo amo sul serio la parete cade e io debbo dire: Lui, dunque io nella comunione, e da quel momento il destino unisce l’umano con il divino dando la possibilità all’essere umano di amare così. Egli da morto e risorto vuole esercitare il suo sacerdozio per nostro tramite. Questo mistero commovente, che in ogni celebrazione del Sacramento ci tocca anche esistenzialmente di nuovo, noi sacerdoti con il vescovo lo ricordiamo in modo particolare convenendo in Cattedrale ogni Giovedì Santo. Perché il quotidiano, il ripetitivo ministero non sciupi ciò che è grande e misterioso, abbiamo bisogno di ravvivare un simile ricordo specifico, abbiamo bisogno del ritorno a quell’ora in cui Egli ha posto le sue mani su di noi e ci ha fatti partecipi di questo mistero.
Riflettiamo perciò nuovamente sui segni nei quali il Sacramento ci è stato donato. Al centro c’è il gesto antichissimo dell’imposizione delle mani, col quale Egli ha preso possesso di me dicendomi: “Tu mi appartieni”. Ma con ciò ha anche detto: “Tu stai  sotto la protezione delle mie mani.  Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue”.
Ricordiamo poi che le nostre mani sono state unte con l’olio che è il segno dello Spirito Santo e della sua forza. Perché proprio le mani? La mano dell’uomo è lo strumento del suo agire, è il simbolo della sua capacità di affrontare il mondo, appunto di “prenderlo in mano per custodirlo e migliorarlo con amore”. Il Signore ci ha imposto le mani e vuole ora le nostre mani affinché, nel mondo, diventino le sue. Vuole che non siano più strumenti per prendere le cose, gli uomini, il mondo per noi, per ridurlo in nostro possesso, ma che invece trasmettano il suo tocco divino, ponendosi a servizio del suo amore. Vuole che siano strumenti del servire e quindi espressione della missione dell’intera persona che si fa garante di Lui e lo porta agli uomini. Se le mani dell’uomo rappresentano simbolicamente le sue facoltà e, generalmente, la tecnica come potere di disporre del mondo, allora le mani unte devono essere un segno della sua capacità di donare, della creatività nel plasmare il mondo con l’amore – e per questo, senz’altro, abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Nell’Antico Testamento l’unzione è segno dell’assunzione in servizio: il re, il profeta, il sacerdote fa e dona più di quello che deriva da lui stesso. In un certo qual modo è espropriato di sé in funzione di un servizio, nel quale si mette a disposizione di uno più grande di lui. Se Gesù si presenta oggi nel Vangelo come l’Unto di Dio, il Cristo, allora questo vuol proprio dire che Egli agisce per missione del Padre e nell’unità con lo Spirito Santo e che, in questo modo, dona al mondo una nuova regalità, un nuovo, un nuovo modo di essere profeta, che non cerca se stesso, ma vive per Colui, in vista del quale il mondo è stato creato. Mettiamo le nostre mani oggi nuovamente a sua disposizione e preghiamolo di prenderci sempre di nuovo per mano e guidarci.
Nel gesto sacramentale dell’imposizione delle mani da parte del Vescovo è stato il Signore stesso ad imporci le mani. Questo segno sacramentale riassume un intero percorso esistenziale. Una volta, come i primi discepoli, abbiamo incontrato il Signore e sentito intimamente, affettivamente la sua parola: “Seguimi!”. Forse inizialmente lo abbiamo seguito in modo un po’ malsicuro, volgendoci indietro e chiedendoci se la strada fosse veramente la nostra. E in qualche punto del cammino abbiamo forse fatto l’esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, siamo cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito e per l’insufficienza della nostra povera persona per un modo celibatario di amare , così da volerci tirare indietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8). Ma poi Egli, con grande bontà, ci ha preso per mano, ci ha tratti a sé e ci ha detto: “Non temere! Io sono con te. Non ti lascio, tu non lasciare me!”. E più di una volta ad ognuno di noi è forse accaduta la stessa cosa a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l’acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro abbiamo gridato: “Signore, salvami!” (Mt 14,30). Vedendo tutto l’infuriare degli elementi, come potevamo passare le acque rumoreggianti e spumeggianti del secolo scorso e dello scorso millennio laicista e secolarizzato? Ma allora abbiamo guardato verso di Lui … Ed Egli ci ha afferrati per la mano e ci ha dato un “nuovo peso specifico”: la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l’alto, verso la certezza e la grandezza della meta nell’affrontare il presente. E poi ci dà la mano che sostiene,  porta e ci fa ricominciare dopo ogni caduta lasciandoci riconciliare. Egli ci sostiene e continuamente ci fa cominciare di nuovo. Fissiamo sempre di nuovo il nostro sguardo su di Lui e stendiamo le mani verso di Lui. Lasciamo che la sua mano ci prenda, e allora non affonderemo, ma serviremo la vita che è più forte della morte, l’amore che è più forte dell’odio o dell’indifferenza. La fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, il vivo presente e operante, è il mezzo grazie al quale sempre di nuovo afferriamo la mano di Gesù e mediante il quale Egli prende le nostre mani e ci guida. Una preghiera da me preferita è la domanda che la liturgia ci mette sulle labbra prima della Comunione: “ … non permettere che sia mai separato da te”. Chiediamo di non cadere mai fuori della comunione con il suo Corpo di risorto, della Chiesa, con Cristo stesso, di non cadere mai fuori del mistero eucaristico. Chiediamo che Egli non lasci mai la nostra mano …
Il Signore ha posto la sua mano su di noi. Il Significato di tale gesto lo ha espresso nelle parole: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Non vi chiamo più servi, ma amici: in queste parole si potrebbe addirittura vedere l’istituzione del sacerdozio. Il Signore ci rende suoi amici: ci affida tutto; ci affida se stesso, così che possiamo parlare con il suo Io – in persona Christi capitis. Che fiducia! Egli si è davvero consegnato nelle nostre mani. I segni essenziali dell’Ordinazione sacerdotale sono in fondo tutti manifestazioni della sua parola; l’imposizione delle mani; la consegna del libro – della sua parola che Egli affida a noi; la consegna del calice con il quale ci trasmette il suo mistero più profondo e personale. Di tutto ciò fa parte anche il potere di assolvere: ci fa partecipare anche alla sua consapevolezza riguardo alla miseria del peccato e a tutta l’oscurità del mondo e ci dà la chiave nelle mani per riaprire, anche prodighi, la porta verso la casa del Padre, togliendo ogni parete con Lui in Cristo e sentirci amati sul serio. Non vi chiamo più servi ma amici. E’ questo il significato profondo dell’essere sacerdote: diventare amici di Gesù Cristo. Per questa amicizia non possiamo non impegnarci ogni giorno di nuovo. Amicizia significa comunanza nel pensare e nel volere, innalzare continuamente mente e cuore a Lui cioè pregare in continuità. In questa comunione di pensiero e di volontà con Gesù non possiamo non esercitarci, ci ricorda san Paolo nella Lettera ai Filippesi (2,2-5). E questa comunione di pensiero e di volontà non è una cosa solamente intellettuale, ma è comunanza di sentimenti, di volontà e quindi anche dell’agire. Ciò significa voler conoscere Gesù in modo sempre più personale, ascoltandolo, vivendo fraternamente, ecclesialmente, insieme con Lui, trattenendoci presso  di Lui nell’Eucarestia. Ascoltarlo – nella lectio divina, cioè leggendo la Sacra Scrittura in un modo non accademico, ma spirituale; così impariamo ad incontrare Gesù risorto, vivo, presente che ci parla. Viene anche il bisogno di ragionare e riflettere sulle sue parole e sul suo agire davanti a Lui e con Lui nel noi della Chiesa, nella sicurezza del dogma. La lettura della Sacra Scrittura è preghiera, deve essere preghiera – deve emergere dalla preghiera e condurre alla preghiera, all’ascolto di Lui che ci rivolge la sua Parola. Gli evangelisti ci dicono che il Signore ripetutamente – per notti intere – si ritirava “sul monte” per pregare da solo con il Padre nello Spirito Santo. Di questo “monte” abbiamo bisogno anche noi: è l’altura interiore che dobbiamo scalare, il monte della preghiera. Solo così si sviluppa l’amicizia. Solo così possiamo svolgere il nostro servizio sacerdotale, solo così possiamo portare Cristo e il suo vangelo agli uomini anche del nostro tempo. Il semplice attivismo può essere persino eroico. Ma l’agire esterno, in fin dei conti, resta senza frutto e perde efficacia, se non nasce dalla profonda, intima comunione con Cristo. Il tempo che impegniamo per questo è davvero tempo di attività pastorale, di un’attività autenticamente pastorale, soprattutto da anziani, da ammalati. Il sacerdote deve essere soprattutto un uomo di preghiera. Il mondo nel suo attivismo frenetico perde spesso l’orientamento. Il suo agire e le sue capacità diventano distruttive, se vengono meno le forze della preghiera che consentono a Dio che ci ha creati liberi, di poter storicamente intervenire, fecondare il nostro  e altrui lavoro.
Non vi chiamo più servi, ma amici. Il nucleo del sacerdozio è l’essere tutti amici di Gesù Cristo, vivo nella e attraverso la Chiesa suo corpo nella concretezza di una comunità fraterna anche piccola: quando due o più …. Solo così possiamo veramente parlare e agire in persona Christi, anche se la nostra lontananza interiore  da Cristo non può compromettere la validità del Sacramento, dell’agire di Cristo. Essere amico di Gesù, essere sacerdote significa essere uomo di preghiera. Così lo riconosciamo, ne constatiamo l’efficacia e usciamo dalla freddezza puramente ministeriale. Così impariamo a vivere, a soffrire  e ad agire con Lui e per Lui, a tentare e ritentare senza mai costringere. L’amicizia con Gesù, che non definisce mai nessuno dal male che fa fino al compimento della vita, è per antonomasia sempre amicizia con i suoi. Possiamo essere amici di Gesù soltanto nella comunione con il Cristo intero, con il capo e il corpo che diacronicamente continua nel tempo, nella tradizione e sincronicamente nello spazio; nella vita rigogliosa della sua Chiesa animata dal suo Signore. Solo in essa la Scrittura è, grazie al Signore vivo e presente, sua Parola viva ed attuale. Senza il vivente soggetto della Chiesa che abbraccia le età, la Bibbia si frantuma in scritti spesso eterogenei e diventa così un libro del passato da studiare con l’analisi storico – critica come se la Rivelazione fosse un meteorite caduto nel libro. Essa è eloquente, attuale Parola del Signore soltanto là dove c’è la consapevolezza della “Presenza” – là dove Cristo con il suo Spirito che l’ha ispirata resta in permanenza contemporaneo  a noi con il dono continuo del suo Spirito: nel corpo della sua Chiesa. 
Essere sacerdote significa diventare amico di Gesù Cristo, e questo sempre di più con tutta al nostra esistenza. Il mondo ha bisogno di Dio che l’ha creato buono, l’ha redento e lo redime, lo ricrea – non di un qualsiasi dio, ma del Dio di Gesù Cristo, del Dio che si è fatto carne e sangue, che ci ha amati e ci ama sul serio fino a morire e risorto a rimanere con noi per darci spazio di speranza. Questo Dio che ha assunto nel grembo verginale di Maria un volto umano e resta vivo anche nella sua umanità gloriosa vive in noi e noi in Lui. E’ questa la nostra chiamata sacerdotale: solo così il nostro vivere ed agire da sacerdoti anche esistenzialmente ci riempie di gioia in tutte le tribolazioni fino al termine della vita con una Madre di figli nel Figlio. 

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