Il Vangelo della Passione del Signore secondo Giovanni: non è un racconto triste, ma un racconto che manifesta la gloria di Gesù di rivelare la larghezza, l’altezza, la lunghezza, la profondità dell’amore di Dio
di Mons. Gino Oliosi
Siamo nel Venerdì Santo, un giorno tenebroso e luminoso. Tutta la Chiesa ricorda la passione, la morte e la sepoltura di Gesù. La liturgia ci offre testi splendidi, che possono nutrire davanti alla Croce molte ore di meditazione.
Siamo nel Venerdì Santo, un giorno tenebroso e luminoso. Tutta la Chiesa ricorda la passione, la morte e la sepoltura di Gesù. La liturgia ci offre testi splendidi, che possono nutrire davanti alla Croce molte ore di meditazione.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, è il canto del Servo sofferente, una stupenda profezia. La seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, ci ricorda l’offerta di Cristo con
forti grida e lacrime, con dolore e sofferenze. Il Vangelo è la passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni: un racconto glorificante. Infatti, la passione nel quarto Vangelo non è un racconto triste, ma un racconto che manifesta la gloria di Gesù, la gloria di aver amato sul serio, sino alla fine e rivela che Dio ama sul serio. Non da sentimentale o da esteta. Questa serietà e concretezza dell’amore significa che Lui incarnato in un volto umano, attraverso il suo amore, partecipa al destino nostro non solo con la stima e la benevolenza ma destinandoci alla sua stessa vita, togliendo ogni parete di creatura e di peccato che ci separa.
La profezia di Isaia è veramente impressionante. E’ un testo unico in tutto l’Antico Testamento, che parla di un personaggio che soffre per i peccati degli altri uomini. Egli soffre terribilmente, è umiliato in massimo grado. Dice il testo: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto agli uomini […], come uno davanti al quale ci si copre la faccia”.
Vengono menzionate anche le sofferenze che questo personaggio accetta per i nostri peccati: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità”.
Così egli ci ottiene la salvezza: “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. Il Servo del Signore soffre per i nostri peccati. Quando vediamo Gesù soffrire durante la passione, dobbiamo pensare che le sue sofferenze sono state sopportate da lui per i nostri peccati, per i miei peccati.
Si tratta di sofferenze feconde. Dice infatti il testo di Isaia: Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà la discendenza, vivrà a lungo […]. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce”. E all’inizio di questa profezia il Signore aveva annunciato la glorificazione straordinaria di questo personaggio. “Il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente”.
Attraverso la sua passione Gesù giunge alla luce della Pasqua.
Il brano della Lettera agli Ebrei ci fa capire che la passione di Gesù è un’offerta sacrificale. Essa non è un sacrificio rituale, non avviene in un luogo sacro, ma è un supplizio che avviene fuori della città. Eppure è il più perfetto dei sacrifici.
Gesù si trova in una situazione di angoscia tremenda. La assume nella preghiera e nella docilità totale verso Dio, come ci riferisce l’autore della Lettera agli Ebrei: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (= per tutti i credenti).
La passione secondo Giovanni è una passione glorificante. Viene preparata dalla preghiera di Gesù – la cosi detta “preghiera sacerdotale” – alla fine della cena (Gv 17). Gesù si rivolge al Padre e gli dice: “Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te” (Gv 17,1). Gesù audacemente chiede di essere glorificato. Ma sa bene che questa glorificazione passa attraverso le sofferenze.
Giovanni ci fa vedere che la glorificazione di Gesù avviene sin dall’inizio della passione; e in tutti gli episodi successivi della passione c’è sempre un aspetto di glorificazione: una glorificazione sorprendente in circostanze che di per sé sono tutte umilianti.
Gesù si trova nel giardino del Getsemani, e vengono a prenderlo. E’ una situazione umiliante; Gesù viene considerato come un malfattore. Ma egli si fa innanzi, e dice a chi viene ad arrestarlo: “Che cercate?”. Gli rispondono: “Gesù il nazareno”. Gesù dice: “Sono io!”. Queste sue parole hanno l’effetto di glorificarlo, perché appena egli dice: “Sono io!”, essi indietreggiano e cadono a terra. Così all’inizio della passione Gesù si presenta come un vincitore. E questo ci fa capire tutto il senso della passione.
Gesù poi fa in modo che le sue parole si realizzino; dice a quelli che sono venuti a prenderlo: “Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano”. Così si adempiono le parole che egli stesso aveva detto, durante la sua preghiera sacerdotale: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato” (Gv 17,12).
Quando è interrogato dal sommo sacerdote, Gesù risponde con grande dignità: “Io ho parlato al mondo apertamente […] e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro”. Subito dopo viene schiaffeggiato da una delle guardie. E’ un gesto di grande umiliazione per lui; ma Gesù risponde con grande dignità: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”.
Dopo l’episodio dell’interrogatorio nella casa del sommo sacerdote, Gesù viene condotto nel pretorio, dal procuratore romano. In questo lungo episodio, in cui Pilato entra ed esce sette volte, parla con gli ebrei e parla con Gesù, si manifesta sempre l’innocenza di Gesù. Pilato lo dice chiaramente: “Io non trovo in lui nessuna colpa”.
D’altra parte, questo interrogatorio offre a Gesù l’occasione di parlare della propria dignità regale. Pilato gli chiede: “Dunque tu sei re?”, e Gesù davanti all’autorità pubblica risponde: “Tu lo dici; io sono re”. Così Gesù viene glorificato.
Poi egli afferma: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità”. Gesù spiega che il suo regno non è di questo mondo, ma è un regno molto più importante di qualsiasi regno umano. Pilato lo conduce di nuovo fuori, e dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa”. E’ una nuova dichiarazione dell’innocenza di Gesù.
Pilato presenta Gesù alla folla con questa espressione: “Ecco l’uomo!”. Gesù, che porta la corona di spine e il mantello di porpora è l’uomo per eccellenza, rivelando contemporaneamente in Lui che è Dio e chi è ogni uomo che Dio ama fino al perdono. E’ stato salutato dai soldati come “re dei giudei” – e questa dignità verrà affermata ancora altre volte -, ma ora Pilato lo qualifica come l’”uomo”. Gesù è l’uomo ideale, l’uomo perfetto. Nella sua passione è l’uomo più perfetto che ci possa essere, lui che va fino all’estrema possibilità dell’amore: Padre perdona loro, non sanno quello che si fanno. Dice infatti Giovanni: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). E Gesù afferma: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Verso la fine del processo si manifesta un altro aspetto della dignità di Gesù. I giudei affermano: “Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio”. Pilato è impressionato da queste parole in cui viene rivelata la dignità filiale di Gesù.
Dopo essere stato condotto sul Golgota, Gesù viene crocifisso assieme a due malfattori. L’evangelista riferisce: “Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo”. Gesù è nel posto d’onore.
Sulla croce viene posta l’iscrizione che proclama in tre lingue dall’autorità romana che egli è re: “Vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei giudei” […]. Era scritta in ebraico, in latino e in greco”. Tutti possono leggere e capire. I sommi sacerdoti si oppongono a questa dichiarazione pubblica di regalità e cercano di far togliere questa iscrizione, ma Pilato si rifiuta, dicendo: “Ciò che ho scritto, ho scritto”. Così viene affermata e riconosciuta a livello pubblico dall’autorità romana la gloria regale di Gesù.
Sulla croce Gesù manifesta il suo potere profondo, intimo. Quando vede sua madre e il discepolo amato, fissa il destino di Maria nuova Eva, dicendole: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Per questa parola di Gesù Maria diventa la madre del discepolo, cioè la madre di ogni discepolo, della Chiesa, dell’umanità. E al discepolo amato Gesù dice: “Ecco la tua madre!”. Questo è il dono meraviglioso che egli sulla croce fa ai suoi discepoli.
Alla fine Gesù può dire: “Tutto è compiuto!”. Cioè, Egli è andato sino all’estrema possibilità dell’amore, e ora tutte le Scritture sono compiute. Questa è la gloria di Gesù: la gloria di amare, la gloria di fare la volontà del Padre, la gloria di salvare tutti gli uomini che l’accolgono, che si lasciano perdonare.
Dopo la morte, la glorificazione di Gesù si manifesta in modo significativo nell’episodio, documentato dal Vangelo secondo Giovanni, del costato trafitto. In quel tempo c’era l’usanza che i soldati spezzassero le gambe ai crocefissi. Questo è un gesto che deforma il corpo umano e lo rende disumano. Ma a Gesù questo gesto viene risparmiato. Invece di spezzargli le gambe, un soldato gli colpisce con la lancia il costato, e dal costato esce sangue e acqua.
L’evangelista insiste su questo fatto: “Chi ha visto ne rende testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero …”. In effetti, questo fatto singolare manifesta la fecondità della passione di Gesù. Possiamo dire che con questo evento il Padre glorifica per l’ultima volta il Figlio alla fine della sua passione.
Il sangue mostra che Gesù, dando la propria vita, può comunicare la vita. Nell’Eucaristia il sangue di Gesù ci comunica la sua vita divina.
L’acqua significa il dono dello Spirito. Gesù aveva detto: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me” (Gv 7,37-38). E l’evangelista aveva commentato: “Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in Lui; infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv 7,39). La passione di Gesù ci ottiene il dono dello Spirito Santo. Giovanni non aspetta la Pentecoste per parlarci di questo dono, ma è consapevole che esso proviene proprio dalla passione e dalla morte di Gesù. Lo Spirito che purifica, lo Spirito che vivifica, lo Spirito che santifica, tutto questo proviene dalla passione di Gesù per noi come singoli e come umanità e mondo.
Infine, la sepoltura di Gesù è un onore che viene reso a lui con una generosità straordinaria. L’evangelista riferisce infatti che Nicodemo porta una mistura di mirra e aloe di circa cento libbre: una quantità enorme!
Dopo aver preso il corpo di Gesù, lo avvolgono in teli insieme con oli aromatici; e il corpo viene deposto in un sepolcro nuovo, nel quale nessuno è stato ancora deposto. Ecco un ultimo onore reso a Gesù!
Dopo aver ascoltato Lui nel racconto della passione secondo Giovanni, possiamo riconoscere la visione di fede che l’evangelista ci offre. E’ una visione commovente, perché la gloria di Gesù si manifesta innanzitutto con un amore spinto all’estremo attraverso enormi sofferenze e umiliazioni.
Ma c’è anche una prospettiva molto positiva: la passione di Gesù è sempre guidata dalla Provvidenza. Nessun dettaglio è privo di significato: la Provvidenza glorifica Gesù attraverso la sua passione. Chi sa discernere il senso profondo degli eventi, riesce a capire tutto questo.
La glorificazione di Gesù diventerà poi molto più evidente con la sua risurrezione e ascensione e con il dono dello Spirito santo nella Pentecoste. Ma tutto questo è una conseguenza della sua passione. Perciò possiamo affermare con grande gioia e gratitudine che la passione di Gesù è glorificazione, come per la sua e nostra Madre che stava presso la Croce con tutti noi.
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