L'educazione morale

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La formazione della coscienza, come già sappiamo, fonda le basi nei primi anni della vita e continua, giorno dopo giorno, a confronto con le scelte quotidiane, sino al termine di essa. Il preadolescente vive un periodo cruciale circa i contenuti della coscienza e il confronto tra il reale e il desiderio, tra ciò che è buono in sé e ciò che soddisfa e gratifica nell’immediato.

Coscienza, scelte morali e valutazione della realtà, interna ed esterna, sono intrinsecamente legate.


Se nell’infanzia il campo della coscienza è circoscritto all’età e alla maturazione dei suoi processi psicoaffettivi e sociali, nell’adolescenza, con lo sviluppo della dimensione cognitiva e l’ampliamento dell’emotività, connessa alle modifiche del corpo, la sua coscienza morale assume nuove connotazioni e anche il “campo della coscienza” si allarga: il preadolescente scopre aspetti nuovi della vita e del mondo circostante, che incidono sulla strutturazione della sua coscienza morale.

Vale la pena soffermarsi sulla formazione della coscienza; ciò serve anche a noi adulti, perché ne siamo coinvolti sia con la nostra individualità e sia come educatori dell’educazione morale dei figli e degli allievi. Come adulti, che ne abbiamo più o meno coscienza, siamo modello di comportamento nei confronti dei bambini, degli adolescenti e dei giovani. Siamo, cioè, modelli di moralità, di ciò che riteniamo buono e valido o non buono, giusto o non giusto.

Occorre avere coscienza del proprio ruolo e capire che è necessario sviluppare nei bambini e nei ragazzi una retta coscienza, perché in essa ha sede la capacità di scoprire il valore dell’uomo e di dare senso e significato alla vita e al mondo che lo circonda.

Se analizziamo la coscienza, verifichiamo che essa si esplica come un’attività tridimensionale.

La prima dimensione dirige il soggetto sul mondo e lo mette in condizione di trovarsi di fronte ad esso, dividendo la sua esperienza in due categorie: il soggettivo e l’oggettivo.

Avere coscienza di queste due categorie (soggettivo e oggettivo), facilita il preadolescente ad uscire da sé, a scoprire il mondo che lo circonda, a vedere che vi sono altre persone, idee, pensieri, desideri, che sono di altri e non suoi. Cioè, il mondo (gli altri) non è assimilabile a quello che lui soggettivamente sente, vive, desidera. E’ questo un aspetto fondamentale della conoscenza che lo aiuta nella formazione della coscienza morale, nell’uscire dal suo egocentrismo infantile ed acquisire una prospettiva allocentrica, in cui considerare valore le altre persone.

Una seconda dimensione della coscienza è quella con cui il soggetto si introduce con l’autoriflessione nella propria esperienza e in essa distingue l’immaginario dal reale. E’ questo lo spazio antropologico del soggetto tipico dell’intenzionalità, caratteristica prettamente umana, che l’uomo non condivide con nessun altro animale. Già i primi comportamenti del bambino sono prenoetici (sono impregnati di elementi cognitivi ed intenzionali) e preludono all’intenzionalità della coscienza (conoscere, scegliere, decidere, agire), che come tale è trascendenza, apertura all’essere, al proprio esistere e all’essere nel mondo. Aiutare il preadolescente a cogliere l’intenzionalità delle sue azioni significa aprirlo al trascendente e avviarlo all’assunzione di responsabilità.

Lo stato di coscienza vigile è contrassegnato dalla consapevolezza di sé e dall’attenzione all’ambiente. Questa duplice caratteristica umana è parte integrante della formazione della coscienza morale del bambino e del giovane. Nell’adulto dovrebbe essere già stata acquisita da tempo.

Il preadolescente nella sua formazione apprende come la consapevolezza di sé e l’attenzione all’ambiente (al mondo esterno, alla persona) facciano anche parte dei criteri di valutazione, non solo dell’ampiezza del campo di coscienza, ma anche dei contenuti valoriali, con cui lui come ogni uomo si confronta con la vita per trovarne senso e significato.

La terza dimensione della coscienza comporta che il soggetto sia presente alla realtà senza lasciarsi fatalmente trasportare in un passato ormai trascorso e superato e neppure lasciarsi trascinare in un avvenire aperto ad ogni desiderio sfrenato.

La coscienza mette il soggetto di fronte alla realtà dell’oggi, in cui è sintetizzato il passato e da cui si proietta il futuro. E’ questa una dimensione essenziale per l’equilibrio mentale e la salute psichica, che permette alla persona di viversi nella realtà del quotidiano, aperta alla progettualità di un futuro in cui non tutto è pianificato. Diviene nevrosi il rimanere arroccato ai nuclei del passato, come anche fuggire e proiettarsi nel futuro non vivendo il presente. L’insoddisfazione generalizzata porta la persona a non vivere il presente e a idealizzare il passato o il futuro.

Il figlio di qualunque età necessita di confrontarsi con adulti che vivano il presente, ricordino con piacere alcuni aspetti del passato e progettino con concretezza il futuro. Ciò gli permette di riconfermarsi  positivamente nelle stagioni della vita, che vede vivere positivamente nell’adulto.

E’ un percorso educativo quotidiano, che costruisce coscienze valide, che hanno la capacità di sapersi collocare nella realtà e viverla con una certa serenità, affrontando le difficoltà come parte integrante della vita stessa.

Avere al proprio fianco adulti di questo tipo è una fortuna per il preadolescente, che vive proprio il periodo in cui deve distaccarsi dai nuclei infantili per proiettarsi concretamente verso la crescita, senza le caratteristiche fughe in avanti.

 La coscienza morale si forma di pari passo con la strutturazione della coscienza e l’ampliamento del suo campo.. I due aspetti sono intrinsecamente connessi, non vi è l’uno senza l’altro. Tuttavia l’arricchimento del campo della coscienza, cioè l’acquisizione di molteplici conoscenze, non sempre corrisponde con l’arricchimento morale. Vi possono essere, infatti, delle persone che hanno sviluppato la coscienza in varie dimensioni (fisica, cognitiva e sociale), ma non hanno maturato nell’ambito morale, nella dimensione spirituale. Vi sono persone che interiorizzano comportamenti immorali e altre, che sviluppano un atteggiamento profondamente distaccato dalla morale: sono a-morali ed hanno come norme e guida del comportamento solo il proprio tornaconto. Sono narcisisticamente chiuse in se stesse. E’ faticoso, per non dire impossibile, lavorare con loro in psicoterapia, perché non presentano alcuna base su cui strutturare la relazione terapeutica e sviluppare un progetto di ridimensionamento della personalità. Anche in psicoterapia occorre il punto d’appoggio per “aiutare la persona ad aiutarsi”. E’ possibile lavorare con persone cosiddette immorali, che però sono alla ricerca di una loro nuova collocazione esistenziale e quindi si ritrovano di fronte alla scoperta per loro di una nuova morale. Per queste il cambiamento è possibile, perché vi è il punto d’appoggio.

Per un ulteriore chiarimento, ci chiediamo che cosa s’intenda per coscienza morale.

La definizione che viene data è la seguente: la coscienza morale è un insieme di processi cognitivi ed emozionali, che costituiscono una guida interiore, la quale regola la condotta individuale in concordanza con i valori riconosciuti dal gruppo sociale di appartenenza. Come si vede questa definizione contiene i seguenti concetti, su cui occorre brevemente soffermarsi:

– i processi cognitivi;

– i processi emozionali;

– la guida interiore;

– la regolazione della condotta;

– i valori del gruppo di appartenenza.



I processi cognitivi sono indispensabili per la conoscenza delle norme e per la valutazione della conformità o disconformità delle proprie azioni alle stesse norme. E’ necessaria la funzionalità dei processi cognitivi e, quindi, la normalità delle funzioni intellettive: per non cadere nella patologia, occorre che vi sia una pur minima capacità di intendere e di volere. Per l’acquisizione della coscienza morale, si dà per scontato la normalità delle funzioni e del loro processo di maturazione perché solo sulla normalità di intendere e di volere è possibile parlare di responsabilità morale.

I processi emozionali, come la paura, la vergogna e la colpa sembrano essere necessari in una prima fase della formazione della coscienza morale, nella fase cioè detta “eteronoma” (di dipendenza dall’esterno), per favorire l’assunzione della condotta conforme alle regole. In questa prima fase l’osservanza delle regole deriva dall’imposizione di un’autorità esterna. Col passare del tempo, con la maturazione psicoaffettiva e quindi della stessa coscienza morale, i processi emozionali dovrebbero lasciare il posto a quelli cognitivi per assumere decisioni e quindi responsabilità come “scelta di libertà”.

L’obiettivo dell’educazione morale è la formazione di un’autorità interiore equilibrata per produrre decisioni autonome, che si confrontino con una scala di valori e tengano conto delle situazioni contingenti e nel contempo dei processi emotivi e razionali.

In tale processo i contenuti della coscienza morale divengono una guida interiore, che regola i comportamenti del soggetto.

E’ d’obbligo una domanda: da dove vengono questi contenuti?

Il soggetto è immerso nel gruppo sociale, di cui la famiglia fa parte. Le cose che contano (i valori) le ha dentro di sé, come persona e attorno a sé nell’ambiente sociale.

Attorno a sé. Durante tutto il percorso della vita la persona si confronta con una gerarchia di valori (psicosociali), che il gruppo di appartenenza vive e trasmette alle nuove generazioni; valori che a volte possono essere in conflitto non solo tra loro, ma anche con ciò che il soggetto ha elaborato nell’autoriflessione e, quindi, nei confronti di quanto proposto dalla società.

I valori psicosociali sono soggetti ai cambiamenti storici e alle trasformazioni culturali, economiche, politiche e ideologiche. Non è semplice per il soggetto orientarsi nella molteplice proposta di ciò che viene ritenuto valore a livello sociale. A volte la stessa proposta ha la contraddizione in se stessa, per cui è un problema se il soggetto non acquisisce e non sviluppa la concezione che l’uomo da solo non può essere misura di se stesso e quindi artefice unico della sua morale. Là dove l’uomo si erige a misura di se stesso, il suo comportamento diviene la norma morale, senza avere nessun parametro di confronto. La storia, anche educativa degli ultimi cent’anni, dovrebbe insegnare qualcosa in questo ambito.

E’ necessario chiedersi se i valori psicosociali non debbano rinviare ad un altro piano valoriale.

Dentro di sé. Il soggetto, attraverso l’autoriflessione e il confronto con la realtà, scopre nell’interiorità la radice della trascendenza e il valore dell’uomo in quanto essere contingente, creaturale, che ontologicamente rimanda ad altro. In questa trascendenza gli si rivelano valori che sono prima e che vanno  oltre i valori psicosociali del gruppo di appartenenza. A questi valori trascendenti si alimenta la sua coscienza morale, che diviene lo spazio in cui si confronta con la modalità sociale che attua o nega tali valori. Per esempio, il valore della vita umana è anteriore alla nascita del singolo, appartiene all’uomo in quanto uomo nel suo primo apparire sulla terra. Al soggetto e al gruppo sociale spetta la scoperta di tale valore e il mettere in atto una serie di regole e di comportamenti, che siano effettivamente valorizzanti la vita. Storicamente, però, vi possono essere delle situazioni e delle norme sociali che confliggono e anche negano il valore stesso della vita.

Come si deduce, l’educazione alla coscienza morale non è una faccenda semplice, anzi diviene spesso un’impresa enorme in questa nostra società, che sullo stesso oggetto presenta nello stesso tempo tutto e il contrario di tutto, come l’iperesaltazione dell’ambiente, dell’ecosistema ambientale, come protezione della vita e poi propone l’aborto e l’eutanasia con un certo semplicismo. Oppure, esige una scrupolosa e minuziosa applicazione di regole per qualunque cosa, poi vi è l’esaltazione della libertà più sfrenata. O ancora, propone una logorante e costante crociata per la parità tra uomo e donna, poi non aiuta la famiglia che desidera avere figli. Gli esempi, li possiamo moltiplicare perché sono sotto gli occhi di tutti.

Ambivalenza della coscienza del preadolescente – Ora ci è più facile comprendere le difficoltà, che il preadolescente vive di fronte alle esigenze della coscienza morale e le stesse fonti di essa.

Se ci ricollochiamo nell’età del ragazzo e nei suoi processi di crescita e abbiamo presente la sua situazione conflittuale psico-emotiva ed intellettiva, comprendiamo come la sua moralità sia ambigua o meglio ambivalente: i preadolescenti sono interiormente divisi e contesi fra le esigenze morali “apprese” in famiglia e quelle del gruppo dei compagni e dell’ambiente esterno, che spesso non sono le stesse.

L’ambivalenza è data dall’essere attirato contemporaneamente dalle due parti, dalla famiglia e dal gruppo. Di solito i due codici morali di comportamento (familiare e sociale) presentano differenti valutazioni sul problema dell’esistenza e sul come viverla nel quotidiano, che non sono facilmente conciliabili, perché spesso in contrasto. Il ragazzo, d’altra parte, diventa capace di osservare criticamente gli stessi genitori e i suoi educatori e, poiché a volte si sente più compreso dai suoi coetanei che dai genitori, è facilmente portato a dare torto a quelli che non stanno dalla sua parte.

La tendenza del ragazzo è quella di prestare molta attenzione a chi al momento gli dà ragione, sia un coetaneo o un adulto. L’esperienza sembra confermare che il ragazzo, di norma, si sente compreso e capito da chi gli dà ragione nella situazione in cui egli la pretende. Col passare del tempo, però, cambia atteggiamento e spesso disprezza l’adulto che non ha saputo fare l’adulto, cioè svolgere il proprio ruolo, sapergli dare torto, peggio se l’adulto era un educatore. Se da una parte vi sono i ragazzi che si comportano da ragazzi, perché è la natura a volerli così, vi sono stati e continuano ad esserci degli adulti che assumono atteggiamenti infantili e adolescenziali, perché nella loro immaturità credono di poter avere le confidenze dei ragazzi e di poter instaurare un dialogo con loro comportandosi come loro. Sono degli adulti mai cresciuti, che occupano un ruolo, quello educativo, che non gli è proprio. Hanno loro da essere rieducati prima alla responsabilità morale e poi a quella educativa. Anche perché, ce lo possiamo dire, il ragazzo sa quando ha veramente ragione e quando ha torto.

Di norma, infatti, avviene che il preadolescente non mette in discussione la legge morale e il suo rigore, perché ha un’intelligenza legalitaria e si rende ben conto di quando mente e di quando bara. Per lui la legge morale, astrattamente considerata, è innegabile, ma è nella pratica che l’obbligo e l’urgenza della norma diventano ambivalenti o, in ogni caso, possono ammettere delle scuse.

Vive un’età, in cui i conflitti fra i doveri non sono solo semplicemente vissuti, essi danno luogo a un dibattito interiore, che si manifesta anche esteriormente. L’attitudine all’interiorità e alla riflessione si sta sviluppando, facilitando la capacità di ragionamento e quindi di comprendere maggiormente i suoi movimenti interni, le sue rabbie, le divergenze tra il principio e la ricerca della gratificazione immediata. Manifesta la sua inquietudine, le sue riserve, il suo punto di vista, si arrocca su posizioni drastiche, diviene flessibile in alcuni casi e lotta per la “giustizia”.

Sappiamo che l’autonomia della coscienza morale si sviluppa – come ha notato Piaget – quando il fanciullo di 10 o 11 anni comincia a considerare che la mera giustizia, che non tiene conto delle intenzioni e delle circostanze, può essere ingiusta.

La giustizia umana, che tenga conto delle intenzioni e delle circostanze, è considerata come la migliore giustizia da tutti i ragazzi, tra i 12 e 13 anni.

 Verso una coscienza morale più autonoma – E’ stato pure osservato che già a 12 anni i preadolescenti si basano maggiormente sul proprio giudizio per decidere ciò che è bene e ciò che è male e tendono a non considerare il giudizio degli altri. A 13 anni è ancora più chiaro questo atteggiamento, per cui essi si sentono più sicuri del giudizio che si sono formati, più inclini a discutere coi genitori e con gli insegnanti, per difendere il proprio giudizio e la propria condotta.

Ciò li induce a cercare giustificazioni mediante argomenti più o meno validi e anche ad accettare un rimprovero meritato se tale lo ritengono giusto.

Secondo l’esperienza, è a 13 anni che, per la prima volta, si rifiutano di scaricare la colpa sugli altri e iniziano a porsi dal punto di vista degli altri per giudicare le proprie azioni: è un passo molto importante che va verso l’obiettività della coscienza morale, che differisce dai giudizi espressi nella fanciullezza, senza analisi critica, o dal giudizio personale, che rifiuta qualsiasi ragionamento.

Questa obiettività, di certo, non è costante e non è raggiunta da tutti. Ogni ragazzo ha un suo grado di maturità anche nell’ambito della coscienza morale, per cui ci si imbatte in quella varietà di caratteri e di reazioni, che si accentuerà sempre più nell’adolescenza.

Infatti, dobbiamo tener presente una serie di fattori che operano e interferiscono sulla sua obiettività morale: il temperamento di base e la forza degli impulsi, che esplodono a questa età e che non sono ancora padroneggiati, la scarsa capacità di molti preadolescenti di rinunciare al fascino dell’immediato e delle gratificazioni derivanti dalle nuove esperienze, ancora sconosciute o scoperte da poco, sono altrettanti fattori, che influenzano la loro condotta morale e che pesano sui loro giudizi di moralità.

Educazione alla morale interiorizzata – Il preadolescente va aiutato a formarsi una coscienza morale valida, che non sia sostenuta né troppo esclusivamente dalla paura, dai risentimenti e dalle frustrazioni dell’infanzia, né dalle identificazioni troppo sommarie e poco durevoli con eroi e personaggi (compagni, sportivi, giovani capi o educatori che affascinano, attori, cantanti, ecc.).

Va, quindi, aiutato a capire che i valori morali non dipendono dalle persone che li trasmettono, ma dall’apprezzamento personale e motivato della coscienza, dall’autorità che scaturisce dai valori stessi e dalle loro giuste esigenze. Se il soggetto resta a livello di identificazione con le persone e con le valutazioni da esse presentate, crea in sé una dipendenza affettiva che si riproietta nel comportamento, per cui sarà affettivamente dipendente anche nelle successive fasi della vita: il suo comportamento lo farà dipendere dagli atteggiamenti delle persone che lo circondano. Per esempio, lavora bene e con profitto se il capo gli dimostra una costante affermazione. In casa, è disponibile se “percepisce” che i figli lo riconoscono e dipendono da lui. Per certi aspetti l’umore degli altri diviene il criterio di valutazione del comportamento buono o meno buono. Prega e va alla messa se Dio ascolta le sue richieste, ma, dato che Dio non decide secondo la volontà umana, abbandona la preghiera e la messa, “tanto non servono a nulla”. Nel contempo può divenire anche superstizioso e va alla ricerca di qualcuno che costantemente lo rassicuri (cartomanti, maghi, guru, ecc.).

Il preadolescente va aiutato a capire che ciascuno è responsabile delle sue scelte di fronte alla propria coscienza, agli altri e anche di fronte a Dio..

Una coscienza illuminata fa vivere la libertà.

Occorre formare la coscienza illuminandola a vivere la libertà, facendo comprendere che la morale, essendo trascendente, non può essere quella che conviene solo a certuni e tanto meno all’egoismo individuale o di gruppo. Bisogna innalzarsi dalla morale del proprio io e da quella limitata dal gruppo sociale, alla morale, a cui tutti noi facciamo fatica a sottometterci per osservarla, ma a cui occorre far costantemente riferimento per un’autentica realizzazione. Una morale che radica nel profondo dell’uomo, nel suo essere ed esistere fa riferimento al Creatore. La laicità della vita non è in contrapposizione con un’etica trascendente, a meno che non neghiamo la trascendenza e ci rifugiamo nel laicismo.

Per attuare questo processo di interiorizzazione, i mezzi migliori sono l’esempio, le azioni, i suggerimenti brevi e concreti di un educatore valido (i genitori sono i primi educatori), le indicazioni capaci di aiutare alla riflessione e di liberare i valori da ogni contenuto opprimente ed impositivo.

I preadolescenti hanno bisogno che venga loro presentata e richiesta una certa disciplina, cioè, delle norme di comportamento; mentre per loro i valori sono ancora rappresentati da modelli viventi, che li attraggono.

Una certa fermezza, esigente ma serena, è più efficace delle lunghe spiegazioni, purché il preadolescente si senta accettato, compreso e amato dai suoi educatori. Ciò non esime l’adulto dal dare spiegazioni su problemi che egli si pone nelle varie circostanze della vita familiare, di scuola, di gruppo e in occasioni di films, di letture, di discussioni, ecc. Non occorre continuare a ripetere sempre le stesse cose: poche cose, presentate con chiarezza, concordate tra i genitori, non in contrasto tra di loro e non in conflitto tra ciò che viene detto oggi e quello che viene affermato ed esigito domani.

Si diceva del comportamento degli adulti, dei genitori in particolare. E’ necessario che i due siano concordi, si mettano d’accordo, non si contraddicano di fronte ai figli, si confermino reciprocamente nel loro ruolo educativo genitoriale, differente ma uniforme. Devono darsi il permesso di svolgere il ruolo differenziato di genitori. La coerenza e la corresponsabilità educativa costituiscono il minimo comun denominatore dell’educazione.

Lasciar fare, lasciar leggere tutto, lasciar vedere tutto, permettere tutto, in nome dell’esperienza e della libertà di scelta è l’abdicazione degli educatori al proprio compito, che può avere gravi conseguenze, soprattutto nel momento in cui, con gli impulsi nascenti, il preadolescente avverte il bisogno di controllarli e di essere aiutato a porli nel giusto processo di maturazione personale.

Occorre guardarsi da un duplice errore: scambiarli per dei ragazzi incapaci di riflettere e di giudicare da soli. Al contrario, proprio in questa età cominciano a giudicare e a ragionare. E credere che i lunghi ragionamenti, i cosiddetti dialoghi, bastino a formarli al controllo di se stessi.

In questa età le lunghe ed estenuanti discussioni persuasive sono premature. E’ l’illusione di tanti adulti, genitori e insegnanti compresi. Pongo una domanda semplice a quegli psicopedagogisti, che hanno diffuso e volgarizzato il verbo della comunicazione ad ogni costo e del ragionamento nell’educazione in ogni età, in ogni ambito e per ogni cosa: con i loro figli come hanno fatto o fanno e a quali conclusioni e persuasioni intime sono arrivati?

Non si nega la comunicazione, che è ascolto e dialogo, ma si nega l’uso negativo della comunicazione, improntata sul non ascolto e sull’imposizione attraverso la persuasione.

Troppi danni sulle persone sono stati perpetrati in nome della comprensione irresponsabile e del permissivismo, da parte di adulti che si sono comportati alla stregua di adolescenti, con un giovanilismo infantile, alimentato dall’idea della bontà naturale, da un equilibrio spontaneo, caratterizzato dal rifiuto aprioristico del sacrificio, dall’apprendimento senza sforzo e dalla sostituzione degli adulti nella soluzione dei problemi dei bambini e degli adolescenti.

Tutto in nome della libertà e dell’autodisciplina. Sono obiettivi educativi splendidi, che come tali rimangono mete da raggiungere.

O, forse, tutto in nome della deresponsabilizzazione educativa degli adulti e dell’incapacità di svolgere la propria funzione.

Io sono profondamente convinto che l’adulto debba fare l’adulto e non l’adolescente: assumersi la responsabilità educativa, e quindi pretendere da sé, dal figlio e dall’allievo il rispetto dei ruoli, che mai possono essere intercambiabili. Tutto ciò con amorevolezza.  Sia i figli che gli allievi capiscono, comprendono, quando i grandi li amano veramente, anche quando sgridano e castigano. Senza amore non c’è vera educazione, potrà esserci istruzione.

Capire non significa permettere tutto, ma comprendere, accettare, dissentire e pretendere quello che si ritiene valido per l’età. Questo è un obiettivo che si persegue giorno dopo giorno, sin dalla primissima infanzia. Richiede un equilibrio educativo, che si ottiene assieme, padre e madre, permettendo a ciascuno di svolgere il proprio diverso ruolo genitoriale e assieme quello educativo. I figli hanno assoluto bisogno di genitori adulti, cioè in cammino di maturazione. Già loro sono piccoli.

I figli hanno bisogno di genitori “genitori”, non di genitori amici. La mamma è la “mamma”, non l’amica della figlia. E’ difficile, direi impossibile, che la mamma possa coniugare bene assieme i due ruoli, amica e madre. Anche dopo una separazione la mamma deve fare “bene” la donna-madre e non anche l’uomo-padre. Altrimenti ne esce un ibrido educativo, che danneggia la percezione psicoaffettiva e l’identità psicosessuale del figlio e della figlia.

Gli amici e le amiche, i ragazzi se li trovano fuori casa; in famiglia necessitano di genitori. E’ una moda imperante, la mamma per amica o il padre per amico, diffusa negli articoli e nelle risposte di settimanali, in rubriche condotte da personaggi più o meno famosi, che si permettono di sentenziare in ogni ambito, compreso quello educativo, in cui dicono tutto e il contrario di tutto.

Vi è un altro aspetto della relazione educativa genitoriale, quello dell’imporre un comportamento “perché te lo dico io”. Ciò può ottenere un’obbedienza immediata, ma col tempo non sarà sufficiente se non vi sarà l’interiorizzazione della norma, che avviene in prospettiva. Possono esserci delle circostanze, in cui occorra intervenire con fermezza per evitare al ragazzo dei possibili disguidi, di cui doversi pentire amaramente per la vita. E’ competenza dell’adulto il saper decidere. Mi sono sentito dire più e più volte da persone in psicoterapia: “Se mio padre…, se mia madre…, se i miei genitori avessero avuto più coraggio e mi avessero fermato…”. Purtroppo, il percorso educativo, a volte, può essere lastricato di “se”.

Il preadolescente ha bisogno di cose chiare, espresse con comunicazione diretta e non con il doppio messaggio, in cui con un linguaggio, quello verbale viene data una proibizione e con quello corporeo si fa capire che non importa, perché l’adulto stesso non vi crede.

La concomitanza tra il dire e il fare e la coerenza tra le raccomandazioni e l’esigere il comportamento conseguente sono fattori che facilitano la vita di relazione e quella educativa in particolare.

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