Il senso autentico della liturgia sta nella dimensione dell’amore e dell’offerta di sé; ha al suo centro la celebrazione eucaristica, sacramento della comunione verticale e orizzontale
di Mons. Gino Oliosi
Traggo liberamente da Introduzione allo spirito della liturgia in Fede, Ragione, Verità e Amore di Joseph Ratzinger Benedetto XVI pp. 478-485
Traggo liberamente da Introduzione allo spirito della liturgia in Fede, Ragione, Verità e Amore di Joseph Ratzinger Benedetto XVI pp. 478-485
La preghiera è possibile soltanto nella teologia trinitaria: poiché vi è una relazione all’interno di Dio, ci può essere una partecipazione dell’uomo a questa relazione. Il “luogo” di
questo inserimento dell’uomo in Dio è la Chiesa: in lei vive Cristo, pertanto la liturgia non è semplice rievocazione della Pasqua, ma la sua “presenza reale”, e quindi è partecipazione al dialogo divino trinitario.
Ma che cosa si intende per “liturgia”? Che cosa avviene in essa? In quale tipo di realtà ci imbattiamo in essa?
E’ una preghiera che ha regole proprie e crea un suo mondo, un suo tempo che avviene quando comunitariamente si entra in esso. Nello stesso tempo si entra liberamente e proprio per questo ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi, di liberatorio, dal momento che ci fa uscire dalla vita di tutti i giorni e dai fini che la caratterizzano, insieme con le costrizioni che questi ultimi comportano, liberandoci quindi, per qualche tempo, da tutto ciò che opprime la nostra vita lavorativa. E’ un momento in cui possiamo lasciar scorrere liberamente l’esistenza immediatamente con Lui.
Il momento liturgico ci ricorda che noi tutti, davanti alla vita veramente vita, cui desideriamo arrivare, restiamo in fondo come dei bambini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la liturgia sarebbe allora completamente diversa di anticipazione, di esercizio preliminare contro l’ideologia del coraggio di finire nel nulla come suggerisce il relativismo di Heidegger: preludio quindi della vita futura, della vita fuori del tempo e dello spazio cioè della vita eterna, di cui Agostino dice che, a differenza della vita temporale e spaziale attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del farci dono com’è la verità del nostro e altrui essere dono del Donatore divino. La liturgia sarebbe allora la riscoperta del nostro vero essere, del nostro diventare come bambini dentro di noi, dell’apertura alla grandezza che ci sta davanti e che non è ancora compiuta con la vita adulta; essa sarebbe una forma ben definita della speranza affidabile per affrontare il presente, anche difficile, forma che anticipa la vera vita, che ci introduce alla vita autentica pur passando attraverso la morte biologica – quella della libertà, dell’immediatezza con Dio e della totale apertura reciproca, fraterna. Così, il momento liturgico imprime anche nella vita apparentemente reale di tutti i giorni i segni anticipatori della libertà e quindi dell’amore, che rompono le costrizioni e lasciano trasparire già il cielo sulla terra. Ecco perché il momento liturgico, quando se ne è consapevoli, è fonte e culmine di tutto il vissuto cristianamente umano . Il pensiero della vita futura vi compare per ora solo come un vago postulato e la vista di Dio, senza la quale la “vita eterna” sarebbe solo deserto, resta ancora del tutto indeterminata. Nella liturgia il culto unito all’amore fraterno è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita. Con l’agire e il soffrire, con l’attesa del giudizio, luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza, è la preghiera liturgica.
Nei racconti degli eventi che precedettero l’uscita di Israele dall’Egitto, così come delle modalità dell’esodo, emergono due diverse finalità di questo evento straordinario, centrale nell’anno liturgico della Veglia pasquale. Una, nota a tutti noi, è il raggiungimento della Terra Promessa, in cui Israele deve vivere finalmente libero e indipendente su una terra propria, tra confini sicuri. Accanto a essa compare però ripetutamente un’altra finalità. L’ordine che originariamente Dio fa al faraone è il seguente: “Manda via il mio popolo, perché mi serva nel deserto” (Es 7,16). Questa espressione – “Manda via il mio popolo, perché mi serva”- viene ripetuta con leggere varianti quattro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e Aronne (Es 7,26; 9,1; 9,13; 10,3). Nel corso delle trattative il faraone si mostra disposto al compromesso. Per lui il problema è quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo momento acconsente nella forma seguente: “Andate e sacrificate al vostro Dio nel paese” (Es 8,21). Ma Mosè – tenendo fede al comando di Dio – insiste nell’affermare che per il culto è necessario l’esodo. Il luogo in cui andare è il deserto: “Per un cammino di tre giorni andare nel deserto a sacrificare al Signore, nostro Dio, come ci aveva detto” (8,23). Dopo le piaghe successive, il faraone si manifesta ancora più disponibile al compromesso. Ora concede che il culto abbia luogo secondo il volere della divinità, dunque nel deserto, ma vuole che a uscire siano solo gli uomini, mentre le donne e i bambini, così come il bestiame devono rimanere in Egitto. In tal modo presuppone una prassi cultuale allora usuale, secondo cui solo gli uomini erano protagonisti del culto. Mosè, però, non può negoziare con il sovrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo a compromesso politico: la forma del culto non è una questione di concessioni politiche; esso ha in se stesso la propria misura, può essere regolato solo dalla misura della rivelazione, a partire da Dio. Per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso del faraone, che questa volta è disposto a concedere molto di più e acconsente che anche donne e bambini possano partire. “Solo restino il vostro gregge e il vostro armento” (10,24). Mosè ribatte che deve portare con sé tutto il bestiame, perché “noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché non arriveremo laggiù” (10,26). In tutto ciò non si parla di Terra Promessa; unico scopo dell’esodo appare l’adorazione, che può avvenire solo secondo la misura di Dio e che, quindi, sfugge alle regole di gioco del compromesso politico.
Israele non parte per essere un popolo come tutti gli altri; parte per servire Dio ed essere suo popolo. La meta dell’esodo è il monte di Dio, ancora sconosciuto, è il servizio da rendere a Dio insieme. Ora si potrebbe obiettare che l’accento posto sul culto nel corso delle trattative con il faraone non sarebbe stato il culto, ma la terra, che costituisce anzi il vero oggetto della promessa fatta ad Abramo. Ratzinger dimostra che con ciò non si renda giustizia alla gravità che si percepisce nei testi. In fondo, la contrapposizione di terra e culto è priva di senso: la terra viene data perché come popolo sia un luogo di culto del vero Dio e così essere luce delle genti. Il semplice possesso della terra, la semplice autonomia nazionale farebbero scendere Israele a livello di tutti gli altri popoli. Questa finalità porterebbe a disconoscere la specificità dell’elezione a popolo di Dio come luce delle genti: l’intera storia dei libri dei Giudici e dei Re, ripresa e rispiegata nelle Cronache, mostra appunto che la terra come tale, presa in se stessa, resta ancora un bene indeterminato, che diventa vero bene, vero dono della promessa compiuta solo se vi regna Dio, il culto a Dio; se la terra non esiste come una sorta di stato autonomo, ma se è lo spazio dell’obbedienza, in cui si compie la volontà di Dio attraverso l’adorazione comune, il culto a Lui e così si realizza la giusta forma dell’esistenza umana. L’esame del testo biblico ci consente però di determinare ancora più precisamente il rapporto che intercorre tra i due scopi dell’esodo. L’Israele peregrinante non apprende ancora, dopo tre giorni (come era stato annunciato nel colloquio con il faraone), quale forma del sacrificio Dio pretenda da lui. Tre mesi dopo, però, “dall’uscita dei figli di Israele dalla terra d’Egitto, in quel giorno arrivarono nel deserto del Sinai” (Es 19,1). Il terzo giorno avviene allora la discesa di Dio sulla cima del monte (19,16.20). Ora Dio parla al popolo, gli manifesta la sua volontà nelle dieci sante parole da lui incise sulla pietra (20,1-17): con Mosè avviene l’alleanza cioè una storia di amore di Dio con il suo popolo (Es 24) che si concretizza in una forma minuziosamente regolata di culto. In tal modo lo scopo della peregrinazione nel deserto, annunciato al faraone, si è compiuto: Israele impara ad adorare Dio nel modo da Lui stesso voluto. Di tale adorazione fa parte il culto, la liturgia in senso stretto; ma essa richiede anche il tentare e ritentare di vivere insieme secondo la volontà di Dio, che è una parte irrinunciabile della vera adorazione. “La gloria di Dio è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio” afferma sant’Ireneo, cogliendo esattamente ciò che avviene nell’incontro sulla montagna nel deserto: in definitiva è la vita stessa dell’uomo, dell’uomo che vive fraternamente insieme secondo giustizia, la vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vera solo se riceve la sua forma personale e comunitaria dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve proprio a questo, a offrire insieme questo sguardo e a dare così la vita, che diventa gloria di Dio.
Tre cose sono importanti per la nostra questione: sul Sinai il popolo non riceve solo delle disposizioni cultuali, ma un ordinamento giuridico e una regola di vita completi poiché il vissuto comunitario è necessario, è parte necessaria del culto, della liturgia. Un popolo senza un ordinamento giuridico comunitario non può sussistere, come non può sussistere senza il culto. Esso precipita nell’anarchia, che è la parodia della libertà, il suo annullamento nell’arbitrio di ciascuno, senza lo sguardo di amore verticale e orizzontale che fa diventare gli individui persone: senza questo sguardo è la sua totale assenza di libertà e quindi della possibilità di essere amato e di amare, di vivere umanamente insieme. Nell’ordinamento dell’alleanza, della storia di amore di Dio al Sinai – ed è il secondo punto – i tre aspetti del culto, del diritto e dell’ethos sono indissolubilmente intrecciati tra loro: è questa la loro grandezza, ma anche il loro limite, come si dimostrerà nel passaggio da Israele alla Chiesa dei pagani, in cui questo intreccio teocratico dovrà essere dissolto per dare spazio a una molteplicità di forme giuridiche e ordinamenti politici, valorizzando però la comunità della famiglia, della parrocchia, di comunità religiose, diocesane nel culto, nella liturgia. Ma dopo questo inevitabile smembramento, che in epoca moderna ha portato infine alla totale secolarizzazione del diritto e che ha voluto drammaticamente escludere completamente ogni riferimento pubblico a Dio nell’elaborazione culturale del diritto, non si può certo dimenticare che davvero esiste una fondamentale correlazione interna fra questi tre ordinamenti: una cultura del diritto che non si basi sulla morale diventa ingiustizia; una morale e una cultura del diritto che non prendano le mosse dal fondamentale riferimento a Dio, al Trascendente degradano l’uomo, perché lo privano della verità del proprio e altrui essere dono del Donatore divino come di tutto il mondo che lo circonda: con questa apparente liberazione da Dio egli viene sottoposto anche democraticamente alla dittatura della maggioranza o egemonia positivista dominante, a criteri umani contingenti che finiscono per fargli violenza.
Arriviamo così a una terza constatazione, che ci riporta al nostro punto di partenza, alla questione dell’essenza del culto e della liturgia: un ordinamento delle cose umane che non riconosce la verità del Donatore divino di ogni essere umano unico e irripetibile cioè persona, punto anche laico di partenza della cultura moderna democratica cioè una rivendicazione della centralità di ogni uomo e della sua libertà, si dissolve l’etica entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso in ogni aspetto. Per questo culto e diritto nella varietà delle forme non possono essere separati tra di loro: il Donatore divino del proprio e altrui essere dono cioè persona va riconosciuto culturalmente, adorato nel culto per non incorrere nel dramma attuale di dissolvere l’ordinamento giuridico umano, perché gli viene a mancare la pietra angolare che tiene insieme tutto. Oggi la cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita esclude Dio dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo ed estraneo. In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale.
Che cosa significa allora in questa drammatica rottura tra orizzonte verticale e orizzontale per la nostra finalità nella memoria dell’Esodo nella celebrazione della Veglia pasquale, in cui viene affrontata la questione dell’essenza della liturgia? E’ evidente che quel che è accaduto sul Sinai, durante la sosta nella peregrinazione attraverso il deserto, è costitutivo per il senso che avrà l’insediamento nella Terra Promessa, ma anche come luce storica perenne per il vivere personale e sociale. Il Sinai non è una stazione intermedia, una pausa nella marcia verso ciò che interessa davvero, ma offre per così dire quella terra interiore, senza la quale l’esteriore resta e resterà sempre inabitabile. Solo perché Israele è costituito nel culto come popolo grazie all’alleanza e alla legge di Dio che essa contiene, solo perché ha ricevuto e riceve, sempre nel culto, la forma comunitaria della vita retta, la terra può divenire per lui davvero un dono e così rivelarsi luce delle genti. Il Sinai resta presente nella terra; nella misura in cui la sua realtà va persa, anche la terra viene interiormente, culturalmente persa, fino alla condanna dell’esilio. Tutte le volte che Israele viene meno al giusto culto di Dio, volgendosi agli idoli – assolutizzando come idoli i doni dei poteri e dei valori temporali -, viene meno anche la sua libertà. Può vivere nella sua terra e tuttavia è come se fosse schiavo in Egitto. Il semplice possesso della propria terra e del proprio stato anche progredito non garantisce la libertà, può divenire una brutale schiavitù; ma quando lo smarrimento della legge è totale, finisce anche per perdere la terra. Quanto il “servire Dio”, la libertà del giusto culto di Dio – che di fronte al faraone appare come l’unico scopo dell’Uscita dall’Egitto -, sia davvero ciò di cui tratta nell’Esodo, lo si può vedere in tutto il Pentateuco: questo vero e proprio “canone nel canone”, il cuore della Bibbia di Israele, si svolge tutto al di fuori della terra Santa. Esso si conclude ai margini del deserto, “al di là del Giordano”, dove Mosè riassume di nuovo il messaggio del Sinai. Diventa così evidente quale è il fondamento del permanere nella terra, la condizione per poter vivere in comunità e libertà: lo stare insieme nella legge di Dio, che ordina e rende possibile con l’ascolto continuo della sua Parola le cose umane secondo giustizia, plasmandole a partire da Dio e per Dio.
Che significa tutto ciò per il nostro problema? Anzitutto si vede ancora una volta che il “culto”, inteso nella sua vera pienezza e profondità, va ben oltre l’azione liturgica, il rito. Esso in definitiva abbraccia l’ordine di tutta la vita umana, nel senso delle parole di Ireneo: l’uomo diventa glorificazione di Dio, lo mette per così dire in luce (ed è questo il culto), quando vive guardando a Lui. D’altra parte è vero che il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione. Che tipo di realtà troviamo allora nella liturgia? Possiamo dire anzitutto che chi elimina Dio dal concetto di realtà è solo apparentemente un realista. Egli astrae dalla verità, dalla realtà del nostro e altrui essere dono del Donatore divino, da Colui in cui noi “viviamo, ci muoviamo e siamo” (At 17,28). Ciò significa che solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e dell’uomo con le altre realtà create da Dio – possono funzionare. Il diritto è costitutivo per la libertà e la comunità; il culto, vale a dire il giusto modo di rapportarsi a Dio senza idolatrare le realtà relative schiavizzandosi è, a sua volta, costitutivo per il diritto. Possiamo ora ampliare questa visione facendo un altro passo avanti: l’adorazione del vero Dio per non idolatrare ciò che dio non è e quindi salvaguardare la libertà, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva anche per la giusta esistenza umana nel mondo; essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del “cielo”, del mondo di Dio, della vita veramente vita, lasciando così trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo. In questo senso il culto ha di fatto il carattere liturgico di un’anticipazione evitando l’ideologia drammatica della scelta relativista di finire nel nulla. Esso prefigura un di più di vita definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura con tutti i suoi limiti, accettabili se conducono verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Una vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota. Per questo non esistono società prive di culto. Persino i sistemi decisamente ateistici, materialistici con il coraggio di accettare di finire nel nulla hanno realizzato e realizzano nuove forme ideologiche di culto, che risultano però solo illusorie e che inutilmente cercano di nascondere la loro nullità nella loro ampollosa millanteria.
Con ciò arriviamo a un’ultima riflessione. L’uomo non può “farsi” da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non lo si mostra. Quando Mosè dice al faraone: “Noi non sappiamo con che cosa servire il Signore” (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. Se Dio non si mostra, l’uomo, sulla base di quell’intuizione di Dio che è iscritta nel suo intimo, può certamente costruire degli altari al “dio ignoto” (At 17,23); può protendersi con il pensiero verso di lui, cercarlo procedendo a tastoni. Ma la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma. Essa presuppone qualcosa che stia concretamente di fronte, che si mostri a noi e indichi così la via della nostra esistenza.
Di questa non arbitrarietà del culto vi sono nell’Antico Testamento numerose e impressionanti testimonianze. In nessun altro passo, però, questo tema si manifesta con tanta drammaticità come nell’episodio del vitello d’oro (o meglio, del torello). Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L’apostasia è più sottile. Essa non passa apertamente da Dio all’idolo, ma resta apparentemente presso lo stesso Dio: si vuole onorare il Dio che ha condotto Israele fuori dall’Egitto e si crede di poter rappresentare in modo appropriato la sua misteriosa potenza nell’immagine del torello. In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria. Due cose portano a questo cedimento, inizialmente appena percettibile. Da una parte la violazione del divieto delle immagini: non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile, lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di Lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni: Egli deve essere lì dove c’è bisogno di Lui e deve essere così come si ha bisogno di Lui. L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di Lui. Con ciò si è già accennato alla seconda cosa: si tratta di un culto fatto di propria autorità. Se Mosè rimane assente a lungo e Dio diventa quindi inaccessibile, allora lo si porta al proprio livello. Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandolo sociologicamente, la comunità non fa che confermare sé stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gura intorno a sé stesso: mangiare, bere, divertirsi. La danza intorno al vitello d’oro è l’immagine di questo culto che cerca sé stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfacimento. La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto, una liturgia realizzata a propria misura, secondo criteri sociologici e alla ricerca di sé stessi, in cui in definitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria iniziativa, di un piccolo mondo alternativo. Allora la liturgia rischia di diventare davvero un gioco vuoto. O, anche peggio, un abbandono del Dio Vivente cioè di Dio che ha assunto un volto umano, che ci ha amato fino alla fine e che risorto è asceso al cielo continua a farsi ecclesialmente presente e operante attraverso la liturgia e tutto camuffato sotto un manto di formalità sacrale. Ma alla fine resta anche la frustrazione il senso di vuoto non c’è più quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene liturgicamente un vero incontro con il Dio vivente e con coloro che Egli ama fino al perdono.
Dal punto di vista di una nuova evangelizzazione in una società culturalmente e nel diritto, nell’etica totalmente secolarizzata, il culto, la liturgia ha bisogno che accada in piccole comunità, a cominciare dalla famiglia, dalle singole parrocchie anche nelle unità pastorali. Rifacendosi alla memoria del momento in cui si dissolve l’impero romano, San Benedetto con la fondazione di monasteri, con l’impegno di liturgia e lavoro ha potuto far nascere l’Europa dalle radici cristiane, bibliche, greco-romane.
Quanto è importante anche oggi lo sforzo, pur nella scarsità dei ministri, per fare in modo che tutti i battezzati partecipino, nelle domeniche e nelle feste di precetto, alla celebrazione dell’eucaristia con persone che anche in piccolo vivano tra loro una fraternità come la famiglia, gruppi carismatici, le parrocchie. La celebrazione dell’eucaristia ancora molto più importante che non il problema, oggi diventato centrale, di ricevere la comunione in modo legittimo e valido da parte di un gruppo limitato di cattolici con una situazione matrimoniale incerta, è veramente centrale.
E quindi la risposta alle tre domande che cosa si intende per “liturgia”, che cosa avviene in essa, in quale tipo di realtà ci imbattiamo, domanda anche la fedeltà alle parole e ai gesti, indicati in rosso nel messale, proposti dalla chiesa.
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