Benedetto XVI e l'islam: un magistero da riscoprire

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A fronte dei tragici eventi di questi giorni, in cui si rinnovano le uccisioni e le torture di cristiani da parte di ultra-fondamentalisti islamici, molti tornano a parlare del magistero di Benedetto XVI, il Papa che ha approfondito più di ogni altro Pontefice il rapporto fra cristianesimo e islam. Ma non tutti lo fanno in modo preciso. Alcuni scrivono, è il caso del solito New York Times, che Benedetto XVI avrebbe esacerbato i musulmani con il discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, così che sarebbe in qualche modo corresponsabile del rinnovato odio di alcuni musulmani verso i cristiani e in particolar modo verso i cattolici. Altri invece
contrappongono Benedetto XVI al suo successore Francesco, sostenendo che Papa Ratzinger, a differenza dell’attuale Pontefice, avrebbe chiaramente denunciato il potenziale di violenza e di odio dell’islam. Nell’uno e nell’altro caso, si rischia di presentare un’immagine riduttiva di Benedetto XVI, quasi si fosse trattato di una semplice versione cattolica di Oriana Fallaci, una scrittrice che il Papa tedesco leggeva con interesse ma cui in un incontro, lo rivelò lei stessa, disse che non poteva accettare la sua chiusura a ogni dialogo con i musulmani. Vale allora la pena di studiare nuovamente il ricco magistero di Benedetto XVI sull’islam. Il magistero non scade come lo yogurt, e si tratta d’insegnamenti che guidano la Chiesa ancora oggi. Anzitutto, Benedetto XVI ha denunciato il fondamentalismo islamico come una gravissima perversione della fede. Si tratta di un «pernicioso fanatismo di matrice religiosa» dove la fede nega la ragione e che non è che «una falsificazione della religione», come l’attuale Pontefice emerito ha ribadito il 7 gennaio 2013, nell’ultimo incontro con il Corpo Diplomatico, citando specificamente la Nigeria, la Siria e
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l’Egitto. Questo fondamentalismo, ha spiegato più volte Benedetto XVI, è un rischio che corrono anche altre religioni, quando separano la fede dalla ragione, e che corre anche il pensiero laico quando in nome della ragione nega la fede. Proprio questo è il punto della breve parte dedicata all’islam nel discorso di Ratisbona, che è principalmente un discorso sui mali dell’Europa e dell’Occidente: la violenza cieca nasce là dove manca un rapporto corretto ed equilibrato tra ragione e fede. La fede senza la ragione genera il fondamentalismo, così come la ragione senza la fede genera la dittatura del relativismo. Il problema dei musulmani è che il mancato approfondimento del rapporto fra fede e ragione segna tutta la storia dell'islam e non solo una sua «deviazione», e ha radici insite nella stessa tradizione coranica. Per questo, se è vero che il rischio del fondamentalismo è presente in tutte le religioni, non si offendono i musulmani ma si enuncia una verità storica se si afferma che nell’islam è più presente che altrove. E che, di nuovo, a partire dal Corano stesso, quando manca l’equilibrio tra fede e ragione, la fede rischia di giustificare e promuovere la violenza. Nello stesso tempo, però, Benedetto XVI, assumendo pienamente il magistero del predecessore san Giovanni Paolo II, ha insegnato che il dialogo interreligioso con l'islam è una scelta irrinunciabile della Chiesa. Poco prima di morire, proprio Oriana Fallaci confidava che il Papa tedesco, a lei che definiva questo dialogo «impossibile», avrebbe ribadito che si tratta di un dialogo «impossibile, ma obbligatorio». Del resto, Benedetto XVI proponeva continuamente il Catechismo della Chiesa Cattolica come norma prossima della nostra fede, e nel Catechismo si legge al numero 841, a proposito delle «relazioni della Chiesa con i Musulmani», che «il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i Musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale».
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L’esortazione apostolica di Benedetto XVI Ecclesia in Medio Oriente afferma con chiarezza che il dialogo diventa impossibile quando da parte musulmana si cerca di «giustificare, in nome della religione, pratiche di intolleranza, di discriminazione, di emarginazione e persino di persecuzione». In questo caso, coordinando quanto afferma il documento con il Catechismo della Chiesa Cattolica, espressamente richiamato nel testo, occorre ribadire con chiarezza che, di fronte alle persecuzioni e ai massacri, nasce un diritto di legittima difesa che non può manifestarsi soltanto in documenti e non può escludere per principio, come abbiamo spiegato su queste colonne con dovizia di citazioni del magistero, l’opzione militare (leggi qui). Ma lo stesso documento afferma pure che «fedele all’insegnamento del Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica guarda i musulmani con stima, essi che rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, l’elemosina e il digiuno, che venerano Gesù come profeta senza riconoscerne tuttavia la divinità, e che onorano Maria, la sua madre verginale». Presentando questa esortazione apostolica nel viaggio in Libano del 2012, Benedetto XVI ha lamentato le rovine e le distruzioni causate in Medio Oriente dalle persecuzioni promosse da una parte, non minore, del mondo islamico, ma ha rilevato che ancora esistono in quel Paese cristiani e musulmani che vivono insieme in pace, il che prova che, per quanto questo non sia facile, «i musulmani e i
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cristiani, l’Islam e il Cristianesimo, possono vivere insieme senza odio, nel rispetto del credo di ciascuno, per costruire insieme una società libera e umana». Ad Ankara il 28 novembre 2006, in un viaggio in cui ha rinnovato la condanna del fondamentalismo, Benedetto XVI ha fatto sue «le parole del mio immediato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II di beata memoria, il quale disse, in occasione della sua visita nel 1979: “Mi domando se non sia urgente, proprio oggi in cui i cristiani e i musulmani sono entrati in un nuovo periodo della storia, riconoscere e sviluppare i vincoli spirituali che ci uniscono”». Il dialogo con i musulmani, ha detto sempre in quell’occasione Papa Ratzinger, «non può essere ridotto ad un extra opzionale: al contrario, esso è una necessità vitale, dalla quale dipende in larga misura il nostro futuro». Per quanto ovviamente divisi su tante cose, «i cristiani e i musulmani, seguendo le loro rispettive religioni, richiamano l’attenzione sulla verità del carattere sacro e della dignità della persona. È questa la base del nostro reciproco rispetto e stima». «Rispetto e stima» indicano uno stile, ma non risolvono il paradosso di un dialogo che, se è «obbligatorio», è anche «impossibile». Anche perché l’islam, soprattutto quello sunnita, maggioritario, non ha una gerarchia, e non si sa mai se chi dialoga con la Chiesa a nome dell’islam rappresenti davvero i musulmani o soltanto se stesso. Nel dialogo, inoltre, è facile cadere in equivoci che derivano dalla nostra distinzione occidentale fra politica e religione, quindi fra autorità politiche e religiose ben distinte fra loro: una distinzione che nell’islam non solo non esiste in pratica, ma per la maggior parte delle scuole non esiste neppure in teoria. Benedetto XVI conosceva bene questi problemi, e ha dedicato tempo e risorse sia a una faticosa ricerca di interlocutori musulmani, sia, forse soprattutto, a una strategia di comunicazione che consisteva nel lanciare messaggi e proporre analisi nella speranza che, forse non immediatamente, nel mondo islamico emergesse qualcuno capace
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di raccoglierli. Parlando a musulmani in Turchia, Benedetto XVI non ha nascosto che il problema della libertà religiosa, quello della violenza e il rispetto dei diritti delle donne costituiscono tre pietre d’inciampo che rendono difficili i rapporti con l’islam. Ma il modo corretto di affrontare questi problemi, ha aggiunto, «è quello di un dialogo autentico fra cristiani e musulmani, basato sulla verità ed ispirato dal sincero desiderio di conoscerci meglio l'un l'altro, rispettando le differenze e riconoscendo quanto abbiamo in comune. Ciò contemporaneamente porterà a un autentico rispetto per le scelte responsabili che ogni persona compie, specialmente quelle che attengono ai valori fondamentali e alle personali convinzioni religiose. Come esempio del rispetto fraterno con cui cristiani e musulmani possono operare insieme, mi piace citare alcune parole indirizzate da Papa Gregorio VII [1020-1085], nell’anno 1076, ad un principe musulmano del Nord Africa, che aveva agito con grande benevolenza verso i cristiani posti sotto la sua giurisdizione. Papa Gregorio VII parlò della speciale carità che cristiani e musulmani si devono reciprocamente, poiché “noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, ogni giorno lo lodiamo e veneriamo come Creatore dei secoli e governatore di questo mondo”». Forse oggi è difficile incontrare principi musulmani come quello lodato da Gregorio VII. Tuttavia il magistero di Benedetto XVI ci guida da una parte a non confondere le posizioni del sanguinario e sedicente califfo al-Baghdadi con quelle di tutti i musulmani, dall’altra (come questo giornale ha ricordato) a comprendere come queste posizioni non derivano da deviazioni individuali ma da un rischio insito nell’islam, fin dalla stesura del Corano, il quale nasce da un rapporto non risolto fra fede e ragione che nella storia islamica genera continuamente – e, da un certo punto di vista, fatalmente – fondamentalismo e violenza.  Il modo di rispondere a questa sfida consiste da una parte nel dire la verità, senza infingimenti, anche sul Corano e sulla storia dell’islam; dall’altra nel perseguire un dialogo «impossibile ma obbligatorio», aiutando gli islamici di buona volontà ad affrontare il nodo irrisolto del rapporto fra fede e ragione e partendo, come in ogni dialogo tra le religioni, dal senso religioso che nonostante tutto abbiamo in comune. Chi pensa diversamente, dovrebbe spiegarci se l’alternativa è la guerra atomica con un miliardo e mezzo di musulmani.

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