di Giuseppe Stevi
Le ultime sorti ecclesiastiche stanno sempre più presentandosi come conseguenza di un intento fortemente decentralizzatore che coinvolge le “prerogative” un tempo sempre e chiaramente avvertite come romane, se romane si considerano quelle attinenti l’organizzazione delle strutture temporali della Chiesa Cattolica.
In tal senso diversi sono gli esempi che recentemente si sono avuti di questa ondata decentralizzatrice: tra questi
basti pensare anche al fenomeno delle molteplici e contrastanti interpretazioni, fatte da vescovi o Conferenze Episcopali varie, su alcuni passaggi dell’ormai arcinota Amoris laetitia, ovvero ai contenuti - anch’essi tutti da interpretarsi - dell’ancor più recente Motu Proprio chiamato Magnum principium in ordine alla ridefinizione delle competenze della Santa Sede, dei vescovi e delle Conferenze Episcopali nelle traduzioni dei testi liturgici.
A ben guardare, poi, questi aspetti - quelli inerenti gli esempi ora richiamati - più che appartenere a questioni meramente organizzative, impattano su questioni dottrinali direttamente coinvolgenti il depositum fidei, in ordine alle quali, forse, può anche apparire azzardata una decentralizzazione a favore di nascenti chiese nazionali (formalmente chiamate Conferenze Episcopali) di rivoluzionaria memoria.
Ma su questi argomenti è inutile in quest’articolo ulteriormente argomentare; vogliamo parlare di altre sfaccettature dove, comunque, visto lo status quo, ognuno fa sempre come meglio crede.
L’ennesima, ultima e conosciuta macroscopica evidenza della situazione della quale stiamo parlando riguarda l’utilizzo e il decoro delle chiese.
Si sa, l’arte è sempre stata ancilla della liturgia, serva della liturgia, ma ormai questa serva si è fatta padrona sciatta e presuntuosa, perché il vecchio padrone ha - o meglio, sembra avere – rinunciato, in alcuni contesti, ad amministrare coscienziosamente i propri averi, la propria casa e, soprattutto, la propria famiglia. Quando parliamo di averi e di casa non ci riferiamo, tuttavia, solamente a quelli materiali che secondo il diritto positivo appartengono legittimamente a determinati soggetti riconducibili direttamente o indirettamente alla gerarchia cattolica, ma parliamo dei beni affidati a San Pietro da Nostro Signore, ovvero il suo gregge, qui sulla terra militante.
Bene. Per esempio, il canone 1220 del Codice di diritto canonico afferma che “Tutti coloro cui spetta, abbiano cura che nelle chiese siano mantenuti quella pulizia e quel decoro che si addicono alla casa di Dio, e che si rimuova da esse tutto ciò che è alieno dalla santità del luogo.”. Ragione vuole che le Conferenze Episcopali ed i singoli vescovi, amministrando quel gregge loro affidato, tengano quindi anche conto della necessità che “nelle chiese siano mantenuti quella pulizia e quel decoro che si addicono alla casa di Dio”.
Come dimostra l’episodio al quale accenneremo a breve, evidentemente così non è, tanto da far pensare che la frammentazione tra Conferenze Episcopali - rectius chiese nazionali - e diocesi varie abbia fatto sì che ogni nazione, ogni porzione del territorio su cui insistono giurisdizioni ecclesiastiche, si possa regolare come meglio crede: paese che vai, usanze che trovi: anche in tema di decoro della casa di Dio.
Dunque, ecco il fatto.
Al centro di una chiesa consacrata - dettaglio, quest’ultimo, di non piccolo conto - è stata esposta un’opera d’arte: una croce, con crocifisso… un bovino.
In una chiesa - lo ripeto - consacrata della cittadina di Kuttekoven, a Looz, in Belgio nella diocesi di Hasselt - la foto ha fatto il giro del mondo - è possibile ammirare proprio questo bel vedere.
“E’ arte” è stato detto dagli organizzatori; il vescovo avrà - probabilmente - dato anche il permesso. Che altro si poteva dire?
Il vescovo di Hasselt, dopo che alcuni fedeli (sicuramente cattolici) si erano recati in quella chiesa per recitare un rosario di riparazione, ha quindi fatto un’uscita pubblica, diramando un comunicato stampa, prendendo carta e penna e non limitandosi ad un tweet, e ha dichiarato: “Abbiamo sempre voglia di collaborare a progetti artistici, e siamo in grado di apprezzare l’umorismo. Ma una mucca in croce è un passo troppo lungo. Il significato di un simbolo qual è la croce non può essere deviato, altrimenti potrebbe essere offensivo o ridicolo”.
Bene, su questo episodio (la mucca crocifissa in chiesa, il vescovo e il suo senso dell’umorismo, il comunicato stampa ecc. ecc.) molte sarebbero le conclusioni. Ma basta qui farne solo alcune.
Una prima di forte consolazione.
Nella chiesa delle chiese nazionali - la cui realizzazione sembra essere auspicata nell’attuale pontificato - speriamo che analoghi casi non si abbiano nella chiesa d’Italia, sul cui territorio ci troviamo.
Prima o poi, tuttavia, a ben cadenzato passo di marcia - sono sicuro - si arriverà anche in Italia a similari episodi; di questi ultimi, seppur connotati da maggiore latina discrezione, periodicamente non ne mancano.
La seconda è che la Chiesa Cattolica, in generale, se una volta - sicuramente in Europa - oltre a fare arte, faceva anche crescere tante vocazioni e, ancor prima, tanti bravi cristiani, oggi, avendo rinunciato ai saggi strumenti di un tempo, non sa più far crescere bravi cristiani ed avere così altrettante e numerose vocazioni e - se interessa anche ai profani (ci sia scusato questo termine) - sa fare pessima arte. Come ha fatto e continua a fare, tra l’altro, con le chiese di nuova ed ultima (in Europa probabilmente in tutti i sensi) costruzione.
La terza è, infine ed aihmè, la più triste perché permette di constatare come un vescovo, in presenza di un episodio così desacralizzante ed abbominevole, possa oggi limitarsi ad affermare semplicemente che deviare “il significato di un simbolo qual è la croce” “potrebbe” - ripeto potrebbe - “essere offensivo o ridicolo”. E non altro: evidentemente ci siamo persi Qualcosa o, meglio, Qualcuno con la Q maiuscola. In compenso, il prelato ci tiene a far sapere che “è in grado di apprezzare l’umorismo”, tanto che il tenore della sua dichiarazione sembra far trasparire come la sua vera preoccupazione sia quella di non rischiare di essere considerato “inviso” all’opinione pubblica fortemente secolarizzata e prevalente.
Utilizzando un’espressione che spessissimo viene sbandierata in certi ambienti, sarebbe quindi proprio da dire che questi, e non altri, sono “i segni dei tempi” che sembrano caratterizzare oggi anche tanti cattolici o presunti tali; segni che, in questo caso, ben paiono attagliarsi alle gerarchie cattoliche del Belgio.
I “segni dei tempi” belli e positivi, invece - e fortunatamente - sono da un’altra parte.
Ci sono! cercateli; li troverete.
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