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Nella sua cella sul Monte San Giorgio cercava silenzio e solitudine. Ottocento anni dopo, mentre a Riva San Vitale ci si prepara ad una storica celebrazione, il Beato Manfredo torna a vivere da protagonista. Si ispira infatti proprio alla sua avventura, rimasta fino ad oggi avvolta nella leggenda e nel mistero, il romanzo storico di un giovane sacerdote milanese, Michele Di Monte, talmente affascinato dalla scelta eremitica del Beat da Riva, da decidere di seguirne l’esempio. "Il messaggio e lo spirito del Beato Manfredo sono più attuali che mai", dice padre Michele. "La Via della Solitudine" (Fede&Cultura)
è la storia, in parte romanzata, ma seriamente documentata, della vita di Manfredo Settala, prete ambrosiano del Duecento, rampollo di una ricca e nobile famiglia milanese proprietaria di terre e castelli, capace di rinunciare a tutto per ritirarsi tra le montagne. L’eremo di Michele Di Monte invece è una vecchia stalla riattata tra i rustici abbandonati dell’alpe di Lornico, nell’alta Valsassina. L’arredamento l’ha costruito lui stesso, con tavole e chiodi. Si arriva a piedi, dall’ultima curva di una strada in parte sterrata che sale ripida. La neve imbianca i castagni e i tetti dei casolari, di fronte ci sono le rocce inconfondibili delle Grigne. Padre Michele è sulla porta di quello che ha ribattezzato Eremo degli Angeli, coperto dalla severa veste nera. ll volto incorniciato dalla barba mostra qualcosa in più dei suoi quarant’anni, ma non ha niente della severità scontrosa che si attribuisce in genere agli eremiti. Sacerdote dal 2004, padre Michele vive in completa solitudine da tre anni. "È proprio vero che chi si ritira attira - scherza sorridendo -. C’è sempre qualcuno che viene a trovarmi per un consiglio, una confessione, a portarmi qualcosa da mangiare. Ho dovuto riservare a questi incontri due ore del pomeriggio, in una giornata già piena di preghiere, letture, meditazioni e tante cose da fare. Ma questo succedeva certamente anche al Beato Manfredo". Già, il Beato. Cosa li ha fatti incontrare nel loro solitario cammino è presto detto. "Ho maturato la mia vocazione tra le chiese rupestri della Sicilia e della Puglia, dove i miei mi portavano in vacanza, sulle storie e gli scritti dei Padri del Deserto - racconta padre Michele -. L’ho approfondita a Camaldoli e poi al Biblico di Gerusalemme, quando alle 5 di mattina andavo a pregare nella Cappella della Santa Croce. Ma è stato un altro eremita e il mio padre spirituale, l’archimandrita ortodosso Gabriel Bunge, che vive presso Roveredo, a farmi conoscere il Beato Manfredo...". L’idea centrale del romanzo è stata quella di contestualizzare storicamente le poche cose che si sanno della vita di Manfredo Settala. Si apre dunque lo scenario sulla lotta tra Como e Milano, seguita alla guerra che per dieci anni aveva infiammato anche il lago di Lugano, sulle dispute tra il Papato di Roma e l’imperatore Federico Barbarossa. Il libro avanza un’ipotesi: una missione segreta affidata a Manfredo per riportare sotto l’influenza papale e ambrosiana nobili e clero in quei territori di confine. Ancora più dirompente dunque diventa la scelta di rinunciare al ministero sacerdotale, e anche alla propria missione, per isolarsi dal mondo. Padre Michele confessa di essersi immedesimato in quella decisione, che è stata anche la sua. "Si diventa eremiti non nella negazione di qualcosa - spiega -, ma nel donarsi totalmente a Dio, riconoscendo che Dio è Tutto o Nulla. ‘Dio solo, Dio solo’, sono le ultime parole che faccio ripetere al beato Manfredo prima di morire". Nel romanzo ci sono tutti i pochi episodi attribuiti al Beato, dal miracolo delle pietre trasformate in pane allo scampanio misterioso che avvertì gli abitanti di Meride il giorno della sua morte, nel 1217. Fino alla disputa tra i vari paesi che rivendicavano il corpo di colui che si voleva già santo risolta dal giogo libero dei buoi, che lo trasportarono fin dentro la chiesa di Riva. Durante le celebrazioni legate alla festa del Beato Manfredo, a fine gennaio, lo si può vedere tuttora, conservato nella sua urna di vetro. Nel libro c’è però soprattutto il tentativo di dare una risposta alla domanda centrale che secondo padre Michele si dovrebbe porre ad un eremita. Non tanto il perché di una scelta individuale estrema, ma la ragione di quella forza misteriosa che da secoli continua a spingere un uomo di fede verso la rinuncia al mondo.
è la storia, in parte romanzata, ma seriamente documentata, della vita di Manfredo Settala, prete ambrosiano del Duecento, rampollo di una ricca e nobile famiglia milanese proprietaria di terre e castelli, capace di rinunciare a tutto per ritirarsi tra le montagne. L’eremo di Michele Di Monte invece è una vecchia stalla riattata tra i rustici abbandonati dell’alpe di Lornico, nell’alta Valsassina. L’arredamento l’ha costruito lui stesso, con tavole e chiodi. Si arriva a piedi, dall’ultima curva di una strada in parte sterrata che sale ripida. La neve imbianca i castagni e i tetti dei casolari, di fronte ci sono le rocce inconfondibili delle Grigne. Padre Michele è sulla porta di quello che ha ribattezzato Eremo degli Angeli, coperto dalla severa veste nera. ll volto incorniciato dalla barba mostra qualcosa in più dei suoi quarant’anni, ma non ha niente della severità scontrosa che si attribuisce in genere agli eremiti. Sacerdote dal 2004, padre Michele vive in completa solitudine da tre anni. "È proprio vero che chi si ritira attira - scherza sorridendo -. C’è sempre qualcuno che viene a trovarmi per un consiglio, una confessione, a portarmi qualcosa da mangiare. Ho dovuto riservare a questi incontri due ore del pomeriggio, in una giornata già piena di preghiere, letture, meditazioni e tante cose da fare. Ma questo succedeva certamente anche al Beato Manfredo". Già, il Beato. Cosa li ha fatti incontrare nel loro solitario cammino è presto detto. "Ho maturato la mia vocazione tra le chiese rupestri della Sicilia e della Puglia, dove i miei mi portavano in vacanza, sulle storie e gli scritti dei Padri del Deserto - racconta padre Michele -. L’ho approfondita a Camaldoli e poi al Biblico di Gerusalemme, quando alle 5 di mattina andavo a pregare nella Cappella della Santa Croce. Ma è stato un altro eremita e il mio padre spirituale, l’archimandrita ortodosso Gabriel Bunge, che vive presso Roveredo, a farmi conoscere il Beato Manfredo...". L’idea centrale del romanzo è stata quella di contestualizzare storicamente le poche cose che si sanno della vita di Manfredo Settala. Si apre dunque lo scenario sulla lotta tra Como e Milano, seguita alla guerra che per dieci anni aveva infiammato anche il lago di Lugano, sulle dispute tra il Papato di Roma e l’imperatore Federico Barbarossa. Il libro avanza un’ipotesi: una missione segreta affidata a Manfredo per riportare sotto l’influenza papale e ambrosiana nobili e clero in quei territori di confine. Ancora più dirompente dunque diventa la scelta di rinunciare al ministero sacerdotale, e anche alla propria missione, per isolarsi dal mondo. Padre Michele confessa di essersi immedesimato in quella decisione, che è stata anche la sua. "Si diventa eremiti non nella negazione di qualcosa - spiega -, ma nel donarsi totalmente a Dio, riconoscendo che Dio è Tutto o Nulla. ‘Dio solo, Dio solo’, sono le ultime parole che faccio ripetere al beato Manfredo prima di morire". Nel romanzo ci sono tutti i pochi episodi attribuiti al Beato, dal miracolo delle pietre trasformate in pane allo scampanio misterioso che avvertì gli abitanti di Meride il giorno della sua morte, nel 1217. Fino alla disputa tra i vari paesi che rivendicavano il corpo di colui che si voleva già santo risolta dal giogo libero dei buoi, che lo trasportarono fin dentro la chiesa di Riva. Durante le celebrazioni legate alla festa del Beato Manfredo, a fine gennaio, lo si può vedere tuttora, conservato nella sua urna di vetro. Nel libro c’è però soprattutto il tentativo di dare una risposta alla domanda centrale che secondo padre Michele si dovrebbe porre ad un eremita. Non tanto il perché di una scelta individuale estrema, ma la ragione di quella forza misteriosa che da secoli continua a spingere un uomo di fede verso la rinuncia al mondo.
Tratto da: Il Timone
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