“Gli Hobbit hanno una riserva di saggezza e di proverbi di cui gli uomini, per lo più, non hanno mai sentito parlare o di cui si sono dimenticati da molto tempo”
di Fabio Trevisan
Tolkien (nella frase riportata sopra in corsivo) faceva riferimento a quella tradizione orale che aveva appreso, da bambino, sulle ginocchia della madre e che rimproverava agli uomini di aver smarrito o trascurato. Prima dell’incontro con Gollum, una creatura caduta e abbassatasi al compromesso con il male, il periglioso percorso di Bilbo Baggins veniva
descritto all’interno di un tunnel in discesa, proprio per farci sperimentare anche fisicamente quella situazione disagevole in prossimità del peccato: “Pareva che il tunnel non avesse mai fine. Bilbo sapeva solo che continuava a scendere costantemente sempre nella stessa direzione”. La via del male costituiva un’apparente comoda strada…verso l’inferno! La miseria spirituale di Gollum era sintetizzata dallo squallore di una vita desolata, preoccupata isolatamente di difendere quel suo perverso tesssoro: “Gollum aveva una barchetta e silenziosamente andava in giro sul lago; perché di un lago si trattava, profondo e mortalmente freddo”. La perdita dell’anima rendeva fredda, come la morte, la figura di Gollum. Tutto sembrava, agli occhi di Bilbo, estremamente viscido, sdrucciolevole e molto pericoloso. Quel povero Hobbit pervertito di nome Gollum (il cui curioso appellativo derivava da un orribile rumore di gola) era talmente schiavo del suo tesssoro da rimanerci incatenato: che dipendenza terribile incuteva quell’anello, che tristezza quella vita gettata via a quel modo. In quel dannato isolamento un barlume di intelligenza talvolta gli sopravveniva: “Porre gli enigmi e talvolta scioglierli era stato l’unico gioco cui avesse mai giocato con altre buffe creature che sedevano nelle loro caverne in un passato lontano lontano, prima di perdere tutti i suoi amici e di essere scacciato via, solo, e di scendere furtivamente nelle tenebre, sotto le montagne”. In Gollum si trovava così l’esatto capovolgimento di quel saggio modo di dire: “Chi trova un amico trova un tesoro”. Nel custodire avidamente quel perfido tesssoro dell’anello aveva perso infatti tutti gli amici. L’incontro tra Gollum e Bilbo, dopo i primi momenti esplorativi di entrambi, era stato indirizzato su un piano intellettivo e mnemonico, a suon di botta e risposta di indovinelli. In mezzo ad una sfilza di interrogativi via via più difficili, Tolkien non si risparmiava di far intravedere un possibile raggio di luce, un lumicino fievole di speranza nelle tenebre della miserevole vita di Gollum, uno squarcio di sana memoria prima della caduta peccaminosa: “Gollum riportò a galla ricordi di tempi lontani, quando viveva con la nonna in una caverna sull’argine di un fiume”. Lui, così deviato, così corroso dall’anello maligno, non riusciva però più a sopportare a lungo ciò che era stato prima: “Questo tipo di enigmi che riguardavano le cose normali e comuni della vita terrena lo stancavano molto”. Si attenevano comunque, sia Bilbo sia Gollum, alle regole del gioco pattuite, dovendo, nel caso avesse vinto Bilbo (come realmente accadde) permettergli di guadagnare l’uscita tramite la via indicata da Gollum: “Bilbo sapeva che il gioco degli enigmi era sacro ed estremamente antico, e che perfino le creature più malvagie avevano timore di imbrogliare quando ci giocavano”. L’affezione morbosa che vincolava Gollum e lo aveva abbruttito in quel spregevole modo era una cosa sola, un unico pensiero nella sua mente: un anello d’oro, un anello prezioso, un tesoro, un anello magico che, infilato al dito, rendeva invisibili: “All’inizio Gollum lo portava al dito, finché il dito gli si stancò; poi lo conservò in un sacchetto a contatto della pelle, finché la pelle non gli si irritò; e ora di solito lo teneva nascosto in un buco nella roccia sul suo isolotto, e tornava sempre indietro a guardarlo”. Ora questo anello che aveva reso schiavo Gollum si trovava nella tasca dell’ignaro Bilbo Baggins.
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