di Paolo Nardi
Non sono in molti a conoscere il Dibattito tra Finrod e Andreth (Athrabeth Finrod ah Andreth), contenuto del decimo volume della History of Middle-Earth (mai pubblicata in Italia, a parte i primi due volumi) intitolato Morgoth’s Ring, il quale ospita scritti relativi alla revisione del Silmarillion successiva al completamento del Signore degli Anelli, cioè composti o modificati da Tolkien nel periodo che va dagli anni Cinquanta in poi.
Si tratta di un lungo dialogo filosofico tra il principe elfico Finrod e l’umana Andreth su temi quali la morte e di come è entrata nel mondo, il fato e il male. Come si può fermare il male? Alla fine per Andreth non ci può che essere una sola risposta: che Ilúvatar (Dio) stesso entri ad Arda (il mondo) prendendo una vita terrestre, che cioè si incarni. Una speranza, questa, che apparentemente costituirebbe un chiaro richiamo al cristianesimo e una prova lampante della fede cattolica che Tolkien avrebbe riversato nella sua produzione letteraria e che suo figlio Christopher, vero artefice del Silmarillion che tutti conosciamo, avrebbe scientemente occultato. Al di là dell’innegabile suggestione offerta da questa prospettiva, siamo sicuri che le cose stiano effettivamente così?
Nessuno
mette in dubbio che Tolkien fosse un cattolico fervente e praticante. Non aveva
alcuna fiducia nella storia, non credeva cioè che l’uomo potesse realizzare il
paradiso in terra. Il paradiso nella sua concezione sta alle spalle dell’uomo,
poi c’è stata la caduta e quindi la storia non è altro che una lunga sconfitta,
salvata però dall’intervento salvifico della Grazia: la salvezza è oltre la
vita e oltre la storia. Ed è innegabile che Il
Signore degli Anelli sia pieno di valori cristiani: l’amore, la carità
verso il prossimo, la pietà verso il colpevole, l’umiltà verso i più deboli,
perfino la speranza pur senza garanzia di redenzione. Il problema semmai sono
gli interpreti che fanno una lettura rigidamente confessionale della sua opera
e la considerano quasi combaciante con la teologia cristiana, come se Tolkien
scrivesse catechismo, facendosi forza dell’affermazione dello stesso Professore
secondo cui «Il Signore degli Anelli
è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica». Per questi interpreti i
personaggi e gli episodi del Signore
degli Anelli sarebbero allegorie di figure bibliche ed evangeliche: Galdriel
sarebbe la Madonna, Sam il Cireneo, il lembas
sarebbe l’Eucarestia, Frodo, Gandalf e Aragorn rifletterebbero in misura
diversa aspetti di Cristo (Frodo la dimensione sacerdotale, Aragorn quella
regale e Gandalf quella profetica). In qualche caso, come ne Il fuoco segreto, la ricerca spirituale di
J.R.R. Tolkien di Stratford Caldecott (Lindau, 2008), i paragoni si fanno
anche più arditi e quindi il passaggio delle Paludi Morte da parte di Frodo e
Sam sarebbe un’allegoria del Getsemani, l’attraversamento di Mordor
rappresenterebbe la Via Crucis e la fiamma di Anor custodita da Gandalf sarebbe
un’allegoria del roveto ardente di Mosè. L’errore fondamentale di questi
interpreti è il riduzionismo, proporre cioè una lettura chiusa e allegorica,
che esaurisce l’interpretazione dell’autore ancorandolo a una confessione o a
una dogmatica, negandone qualsiasi altra lettura (senza però spiegarne il
successo trasversale): Galadriel può sicuramente avere tratti della Vergine
Maria, ma di certo non si esaurisce in essa (tanto più che Galadriel nel Legendarium tolkieniano non è affatto
immune da colpe, visto che si trova nella Terra di Mezzo per espiare la sua
partecipazione alla ribellione di Fëanor narrata nel Silmarillion), e a ben
vedere Frodo di Gesù non ha proprio niente, dal momento che, sebbene
esemplifichi una situazione sacrificale, non è senza peccato, non risorge e vive
come un fallimento il non essere riuscito a compiere la sua missione. Allo
stesso modo il collegamento lembas-Eucarestia
fu proposto da un lettore senza che Tolkien ne avvallasse l’interpretazione.
A
sconfessare un’interpretazione del genere ci pensa del resto lo stesso Tolkien,
che a più riprese dichiarò di non proporre letteratura allegorica e di odiare
l’allegoria, arrivando persino a dire che «gli hobbit non sono un’allegoria più
di quanto non lo siano i pigmei nelle foreste africane». Basti pensare il suo
cruccio nei confronti del ciclo arturiano, da lui amato e sua materia di studio
(Tolkien era professore di filologia anglosassone) ma a suo avviso guastato da
un’eccessiva allegoria cristiana che ne depauperava l’origine pagana. La sua
mitologia è volutamente priva di espliciti riferimenti cristiani e il mondo da
lui creato (cesellato fin nei minimi dettagli) non ha conosciuto un Avvento o
una Rivelazione; di più, nella Terra di Mezzo non ci sono proprio riferimenti
alla religione. Non esistono culti strutturati, non c’è una chiara visione
dell’aldilà, non c’è un clero, non ci sono autorità spirituali: addirittura,
l’unica volta che si cita un culto, quello che impianta Sauron a Númenor in
onore di Melkor, esso coincide con il massimo male. È una realtà anacronistica
anche rispetto al paganesimo storico. Lo stesso Tolkien ha inserito la parola
“pagano” (heathen) in due occasioni
all’interno del Signore degli Anelli,
a proposito di antiche pratiche rituali di suicidio e immolazioni, vero e
proprio anacronismo di cui l’autore era perfettamente consapevole perché
inerenti alla sfera etico-morale del suo Legendarium.
In una lettera Tolkien dice che nella Terra di Mezzo c’è una sorta di
monoteismo naturale dove la storia ha una direzione, quindi c’è un riferimento
alla religione ebraico-cristiana, ma non per questo le creature che vivono in
quel mondo coincidono con esso. Addirittura, di fronte a chi gli faceva
osservare che la Compagnia dell’Anello lascia Gran Burrone il 25 dicembre e che
quindi questo era un lampante riferimento al Natale, o che la distruzione
dell’Anello e la caduta di Sauron avviene il 25 marzo, festività
dell’Annunciazione, Tolkien rispondeva in un’intervista del 1967 che la data
del 25 dicembre era puramente casuale e che lui l’aveva lasciata proprio per
evitare degli espliciti riferimenti al messaggio cristiano nella sua opera.
Questo non significa che quando leggiamo Il Signore degli Anelli non possiamo
fare certi collegamenti, ma dobbiamo tenere ben presente che questa operazione
di associazione si chiama “applicazione” e ha a che vedere con la libera
lettura che ognuno di noi fa di un’opera letteraria in base alla propria
cultura e alla propria formazione. Noi possiamo benissimo leggere la
trasfigurazione di Gandalf come quella di Gesù, ma il testo non lo dice e non
contiene alcuna corrispondenza. Anzi, il Legendarium
tolkieniano presente delle differenze fondamentali rispetto alla teologia
cattolica, di cui Tolkien era perfettamente consapevole:
1) La
creazione, così com’è narrata all’inizio del Silmarillion, è diversa da quella della Genesi in quanto l’immagine
creata dalla musica degli Ainur (le intelligenze angeliche) e che Eru-Ilúvatar (Dio)
realizza contiene già la stonatura di Melkor, quindi il mondo è già intaccato
da quella sfumatura negativa, cioè dal male. Non è così nella Genesi, dove il
male entra nel mondo attraverso il peccato originale dopo la creazione (Dio ha
creato il mondo perfetto).
2) Il
concetto di fato elfico non coincide con l’idea di Provvidenza cristiana così
come formulata da San Tommaso d’Aquino. In Tolkien Eru-Ilúvatar stabilisce dei
determinati accadimenti, ma poi come essi si realizzano nella storia dipende
dal libero arbitrio e dalle scelte dell’uomo. San Tommaso, invece, dice che
un nostro libero atto di volontà è creato da Dio e dipende nell’essere da Dio.
3) In Tolkien gli elfi si reincarnano, inizialmente per rinascita, successivamente per ricostruzione (a questo proposito si veda il recente e illuminante J.R.R. Tolkien, La reincarnazione degli elfi e altri scritti, Marietti, 2016). Non è mai una resurrezione in senso cristiano: infatti nella resurrezione dei morti l’uomo si riprende esattamente il proprio corpo, mentre nella ricostituzione del corpo il corpo dell’elfo (perché solo gli elfi si reincarnano, non gli uomini) è materialmente diverso.
3) In Tolkien gli elfi si reincarnano, inizialmente per rinascita, successivamente per ricostruzione (a questo proposito si veda il recente e illuminante J.R.R. Tolkien, La reincarnazione degli elfi e altri scritti, Marietti, 2016). Non è mai una resurrezione in senso cristiano: infatti nella resurrezione dei morti l’uomo si riprende esattamente il proprio corpo, mentre nella ricostituzione del corpo il corpo dell’elfo (perché solo gli elfi si reincarnano, non gli uomini) è materialmente diverso.
Tornando
all’Athrabeth, la grande studiosa
Verlyn Flieger legge l’episodio non come una profezia su un accadimento futuro
quanto come lo scontro fra due diverse tradizioni mitiche, quella di Finrod e
quella di Andreth, ma ritiene che l’esplicita intromissione della religione
rivelata sarebbe contraria al principio tolkieniano di escludere qualsiasi
riferimento al messaggio cristiano nella sua opera, e quindi sarebbe un errore,
in quanto Tolkien si sarebbe contraddetto. A rendere più problematico il tutto
si aggiunge il fatto che noi non sappiamo dove esattamente Tolkien pensasse di
collocare il dialogo e che ruolo intendesse attribuirgli nell’economia del
racconto (D. C. Kane, in Arda
reconstruced. The creation of the published Silmarillion – Benthelm, Leigh
University Press, Cranbury, 2009 –, ha dimostrato che Il Silmarillion così come è stato pubblicato nel 1977 in realtà non
esiste e che è in gran parte frutto di scelte fatte dal figlio di Tolkien,
Christopher). A illuminare l’episodio di una nuova luce ci pensa Claudio Testi,
per il quale Tolkien starebbe «spingendo al massimo il potere “conoscitivo”
della sub-creazione fantastica, per mostrare come alcune verità filosofiche
sarebbero attingibili anche all’interno di un mondo secondario, basandosi solo
sulla cultura e conoscenza interna dello stesso mondo sub-creato». L’Athrabeth si configura quindi come un
vero dialogo platonico, in cui la tradizione mitica resta un espediente
retorico rispetto all’autentica discussione sui principi etici e metafisici che
essa deve aiutare a promulgare: tanto più che alla fine, assumendo il punto di
vista di Andreth, Finrod intuirà una prospettiva molto più grande di quella che
entrambi avevano all’inizio del dialogo.
È la
posizione espressa da Testi nel bellissimo Santi
pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien (Edizioni Studio Domenicano, 2014),
vero e proprio nuovo termine di paragone nel rapporto paganesimo-cristianesimo
nell’opera di Tolkien, capace di rendere pienamente giustizia all’incredibile
complessità e ricchezza del Tolkien scrittore e di non imbrigliarlo all’interno
di schemi interpretativi che ne limitano e umiliano la portata. Testi dimostra
che in realtà l’opera di Tolkien è allo stesso tempo pagana e cristiana in modo
armonico, e che in questo si vede la sua mentalità cattolica: cioè l’opera di
Tolkien può dirsi fondamentalmente cattolica proprio perché pagana. È come se Tolkien
avesse sentito la necessità di creare un mondo “a religione zero” e mettere
l’uomo di fronte al male e ai grandi problemi dell’esistenza, immaginando un
mondo in cui la religione non c’è, ed è per questo che la sua opera può parlare
anche a un non cristiano e a un non credente, cioè è universale. L’idea più
geniale di Testi è quella di dimostrare che solo un cattolico come Tolkien
poteva costruire un mondo a tutti gli effetti pagano che non entrasse in
contraddizione con un’idea cristiana di mondo, inserendo quest’interpretazione
nella tipica tendenza della teologia cattolica di accogliere e recuperare da
sempre il bagaglio di un passato pagano che ha preparato l’avvento della
Rivelazione. Il cattolicesimo, dal punto di vista culturale, ha infatti sempre
sostenuto il piano della natura con quello della Grazia, oltre che l’accordo
tra ragione e fede: San Tommaso dice che la Grazia non cancella la natura ma la
perfeziona, e per questo è stato capace di usare la filosofia pagana
neoplatonica e aristotelica per l’elaborazione della teologia cristiana.
Esattamente il contrario di quanto fatto dalla riforma luterana, la cui cesura
nei confronti del paganesimo è stata netta: sola
fide, sola scriptura, affermava Lutero, cioè basta la fede e non serve la
ragione, basta la scrittura e non serve la filosofia. Un protestante non
avrebbe mai accettato il paganesimo, né la prospettiva che un pagano potesse
salvarsi. Per questo Tolkien dice che «Il
Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica»:
non in un’accezione confessionale (un’opera che ricalca in maniera pedissequa i
dettami di una confessione religiosa) ma in un’accezione filosofica che non
vede nel paganesimo soltanto il male. Ecco quindi che, per Testi, «la
fondamentale cattolicità dell’opera di Tolkien non va rintracciata in
riferimenti espliciti alla Fede o in allegorie interne, ma risiede
paradossalmente proprio nella peculiare non-cristianità e “laicità” del suo
mondo, un universo essenzialmente pagano espressione di un piano naturale, che
tuttavia è in armonia con quello soprannaturale della rivelazione».
1 commento:
Certo che lo possiamo fare! Sarà sempre più cattolico di quello che si fa oggi nelle parrocchie.
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