Il Papa è una persona assolutamente importante. Egli è, in un certo senso, il capo, il rappresentante e allo stesso tempo il responsabile del fatto che quella fede che tiene uniti gli uomini sia creduta, che rimanga viva e che rimanga integra nella sua identità. Ma unicamente il Signore ha il potere di conservare gli uomini nella fede
Penso utile in questo
momento riportare una conversazione di Benedetto XVI con Peter Seewald su
questo argomento in Luce del mondo (pp. 22-26)
Per la Chiesa
Cattolica il Papa è il Vicarius Chrsti, il rappresentante di Cristo in terra.
Ma lei veramente può parlare a nome di Cristo?
Nell’annuncio della fede e nell’amministrazione dei
sacramenti, ogni sacerdote parla e agisce su mandato di Gesù Cristo, per Gesù
Cristo. Cristo ha affidato la sua Parola alla Chiesa. Questa Parola vive nella
Chiesa. E se nel mio
intimo accolgo e vivo la fede di questa Chiesa, se parlo e
penso a partire da questa fede, allora quando annuncio Lui parlo per Lui, anche
se nel dettaglio possono esserci delle insufficienze, delle debolezze. Quel che
conta è che io non esponga le mie idee
ma cerchi di pensare e vivere la fede della Chiesa, di agire su Suo mandato in
modo obbediente.
Il Papa è veramente
“infallibile”, nel senso in cui a volte lo presentano i mass media? E cioè un sovrano assoluto il cui pensiero
e la cui volontà sono legge?
Questo è sbagliato. Il concetto dell’infallibilità è andato
sviluppandosi nel corso dei secoli. Esso è nato di fronte alla questione se
esistesse da qualche parte un ultimo organo, un ultimo grado che potesse
decidere. Il Vaticano I – rifacendosi ad una lunga tradizione che risaliva alla
cristianità primitiva –alla fine ha stabilito che quell’ultimo grado esiste.
Non rimane tutto sospeso! In determinate circostanze e a determinate condizioni,
il Papa può prendere decisioni in ultimo
vincolanti grazie alle quali diviene chiaro che cosa è la fede della Chiesa. E
cosa non è. Il che non significa che il Papa possa di continuo produrre
“infallibilità”. Normalmente il Vescovo di Roma si comporta come qualsiasi
altro vescovo che professa la propria fede, la annuncia ed è fedele alla
Chiesa. Solo in determinate condizioni, quando la tradizione è chiara ed egli
sa che in quel momento non agisce arbitrariamente, allora il papa può dire:
“Questa determinata cosa è fede della Chiesa”. In questo senso il Concilio
Vaticano II ha definito la facoltà della decisione ultima: affinché la fede potesse
conservare il suo carattere vincolante.
Il ministero petrino –
così Lei spiegava – garantisce la concordanza con la verità e la tradizione
autentica. La comunione con il Papa è presupposto per una fede retta e per la
libertà. Sant’Agostino aveva espresso questa idea così: dove c’è Pietro, c’è la
Chiesa, e lì c’è anche Dio. Ma è un’espressione che viene da altri tempi, oggi
non è più valida…
In realtà l’espressione non è formulata in questi termini e
non è di Agostino, ma ora non è questo il punto. In ogni caso si tratta di un
assioma anche della Chiesa Cattolica: dove c’è Pietro, c’è la Chiesa.
Ovviamente il Papa può avere opinioni personali sbagliate. Ma come detto:
quando parla come Pastore Supremo della Chiesa, nella consapevolezza della sua
responsabilità, allora non esprime più la sua opinione, quello che gli passa
per la mente in quel momento. In quel momento egli è consapevole della sua grande
responsabilità e, al tempo stesso, della protezione del Signore; per cui egli
non condurrà, con una siffatta decisione, la Chiesa nell’errore ma al contrario,
garantirà
la sua unione con il passato, il presente ed il futuro e soprattutto con il
Signore. Questo è il nocciolo della faccenda e questo è quello che
percepiscono anche altre comunità cristiane.
Durante un simposio
svoltosi nel 1977 in occasione dell’80esimo compleanno di Paolo VI, Lei tenne
una relazione su cosa e come dovrebbe essere un Papa. Citando il cardinale
inglese Reginald Pole, disse che un Papa dovrebbe “considerarsi e comportarsi
come il più piccolo degli uomini”, che dovrebbe ammettere “di non conoscere
altro se non quell’unica cosa che gli è stata insegnata da Dio Padre attraverso
Cristo”.Vicarius Christi, diceva,
significa rendere presente il potere di Cristo come contrafforte al potere del
mondo. E questo non sotto forma di qualsivoglia dominio, ma piuttosto portando
questo peso sovrumano sulle proprie spalle umane. In questo senso, il luogo
autentico del Vicarius Christi è la
Croce.
Sì, anche oggi ritengo che questo sia vero, Il primato si è
sviluppato fin dall’inizio come primato del martirio. Nei primi tre secoli,
Roma è stata fulcro e capitale delle persecuzioni dei cristiani. Tenere testa a
queste persecuzioni e rendere testimonianza a Cristo fu il compito particolare
della sede episcopale di Roma. Possiamo considerare provvidenziale il fatto
che, nel momento stesso in cui il Cristianesimo si riappacificò con lo Stato,
l’impero si trasferisse a Costantinopoli, sul Bosforo. Roma, per così dire, era
divenuta provincia. Così fu più facile per il Vescovo di Roma evidenziare
l’indipendenza della Chiesa, la sua distinzione dallo Stato. Non è necessario
cercare sempre lo scontro, è chiaro, quanto piuttosto mirare al consenso,
all’accordo. Ma sempre la Chiesa, il cristiano, e soprattutto il papa deve
essere cosciente del fatto che la testimonianza che deve rendere possa divenire
scandalo, che non venga accettata e che quindi egli si trovi costretto nella
condizione del testimone, di Cristo sofferente. Il fatto che i primi Papi siano
stati tutti martiri, ha il suo significato. Essere Papa non significa porsi
come un sovrano colmo di gloria, quanto piuttosto rendere testimonianza a Colui
che è stato crocifisso, ed essere disposto ad esercitare il proprio ministero
anche in questa forma, in unione a Lui”.
Ritengo utile anche un
colloquio di Joseph Ratzinger Benedetto XVI con Peter Seewald in IL SALE DELLA TERRA ( pp.208-210)
Il dogma
dell’infallibilità
Iniziamo allora con un
punto che i protestanti hanno liquidato molto presto, il dogma dell’infallibilità.
Cosa esprime veramente questo dogma? E’ giusto dedurne che tutto ciò che il
Santo padre dice è automaticamente santo e giusto? Vorrei porre questo problema
all’inizio di questo elenco di punti critici, perché si tratta di un tema che,
per tanti motivi, continua a suscitare dibattiti.
Lei ha già citato un’interpretazione errata. Questo dogma
non significa infatti, che tutto ciò che il papa dice è infallibile. Significa semplicemente
che nel cristianesimo, almeno secondo la fede cattolica, c’è un’istanza
decisionale ultima: sulle questioni essenziali quest’ultima può prendere delle
decisioni definitive e vincolanti, con la certezza che l’eredità di Cristo è
ben interpretata. Questo carattere vincolante, in qualche forma, è presente in
ogni comunità di fede cristiana, solo che, appunto, non è riferita al papa.
Anche per la Chiesa ortodossa le decisioni del Concilio sono infallibili, nel
senso che mi ci posso affidare, nella certezza che l’eredità di Cristo è ben
interpretata, che quella è la fede comune della Chiesa. Non è quindi necessario
distillarla ex novo, traendola dalla
Bibbia, poiché alla Chiesa è data la possibilità di una certezza comune. La
differenza con l’Ortodossia consiste solo nel fatto che il Cattolicesimo oltre
al Concilio ecumenico conosce un’altra istanza di conferma della fede, che è
appunto il successore di Pietro. Il papa, poi, in pronunciamenti di questo
genere è legato a sua volta a condizioni che garantiscono – e profondamente lo
impegnano – che egli prenda delle decisioni non nella sua coscienza soggettiva,
ma all’interno della grande tradizione della Chiesa.
Tuttavia c’è voluto molto
tempo per trovare questa soluzione.
Anche i concili sono stati tenuti molto prima che si
arrivasse a formulare una teoria conciliare (di infallibilità). I padri del
concilio di Nicea del 325, che fu il primo concilio, non sapevano affatto cosa
fosse un concilio, dal momento che, oltre tutto, esso era stato convocato dall’imperatore.
Tuttavia ai padri di Nicea fu subito chiaro che a parlare non erano stati solo
loro, ma che potevano dire (come era avvenuto nel concilio degli Apostoli): “E’
piaciuto allo Spirito santo e a noi” (At 15,28), che, cioè, lo Spirito santo
aveva parlato in loro e per mezzo di loro. Il concilio di Nicea parla poi delle
tre sedi primaziali, cioè Roma, Antiochia ed Alessandria. In questo modo esso
cita delle istanze di conferma della fede, tutte e tre dipendenti dalla
tradizione di Pietro. Roma e Antiochia sono le sedi vescovili di san Pietro;
Alessandria, come sede di san Marco, era in qualche modo legata alla tradizione
petrina e fu quindi inserita in questa triade. I vescovi di Roma hanno mostrato
molto presto la chiarissima consapevolezza di trovarsi in questa tradizione
petrina e di avere, insieme alla responsabilità, anche la promessa di Gesù, che li aiuta a corrispondervi. Ciò è
visto molto bene nella crisi ariana, quando era l’unica istanza che poteva
contrapporsi all’imperatore. Il vescovo di Roma, che deve naturalmente ascoltare la
Chiesa nel suo insieme e non crea lui stesso la fede, ha una funzione che è
pienamente in linea con al promessa fatta a Pietro. Tutto questo ha poi trovato
una formulazione concettuale definitiva solo nel 1870. Forse si
dovrebbe osservare ancora che nel frattempo anche al di fuori della cristianità
cattolica si è fatta sentire la necessità di un’istanza unitaria. Lo si è
visto, per esempio, nel dialogo con gli Anglicani. Questi sono pronti a
riconoscere a Roma un ruolo di vigilanza in connessione con la tradizione
primaziale, pur senza voler riferire direttamente al papa le parole di Pietro.
Anche in altre aree della cristianità protestante si riconosce la necessità di
un portavoce che sia l’espressione della cristianità stessa. E anche nella
Chiesa ortodossa emergono voci che si esprimono criticamente contro la
frantumazione della Chiesa in autocefalie (chiese nazionali) e ritengono
sensato un ritorno al principio petrino. Non si tratta di un riconoscimento del
dogma romano, ma emergono sempre più chiaramente delle convergenze”.
San Giovanni Paolo II ha chiesto dei suggerimenti sulle
modalità dell’esercizio del primato petrino.
Per me è indicativa la direttiva di un dottore della Chiesa,
Santa Caterina da Siena. Ha riconosciuto carismaticamente il vero successore di
Pietro nel papa ad Avignone e ne esprime la continuità sacramentale chiamandolo
Dolce
Cristo in terra e nello steso tempo la correzione filiale: Non
far fare brutta figura a Cristo.
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