Non si può ridurre al minimo le esigenze del Vangelo

“Mentre i cristiani muoiono per la loro fede e la loro fedeltà a Gesù, in Occidente, degli uomini di Chiesa cercano di ridurre al minimo le esigenze del Vangelo” (Cardinale Robert Sarah)



Il card. Dolan di New York, tramite il Dr. George Weigel, ha invitato lunedì sera, 12 ottobre 2015 (Columbus Day) il Prof. Mons. Livio Melina, Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia ad un incontro con cardinali e vescovi americani o di lingua inglese al Roof Garden della Residenza Paolo VI per una conversazione sul Sinodo. Grati all'autore pubblichiamo il testo

Il Dott. George Weigel mi ha chiesto di esporre le speranze mie e dell’Istituto che presiedo circa il Sinodo dei Vescovi in corso. Potrei dire sinteticamente: spero, come tutti sperano, un rinnovamento della pastorale familiare adeguato alle sfide di oggi. Ma con questo non avrei detto nulla e vi avrei delusi.

In realtà la speranza per non essere  falsa ha bisogno di realismo. E il realismo è anche legato a certi timori. I miei timori nascono dal testo su cui il Sinodo sta lavorando e che è stato preparato come guida ai lavori, un testo che, a differenza di altre circostanze sinodali, sta avendo un’importanza enorme. La domanda a cui vorrei rispondere è dunque la seguente: è possibile raggiungere la speranza che tutti abbiamo, seguendo le linee delineate in questo testo? E come è possibile eventualmente cercare di migliorare questo testo?

Sono infatti convinto che l’Instrumentum laboris abbia gravi insufficienze ed ambiguità su almeno tre punti concreti e temo che se lasciato con queste insufficienze porterà alla rovina non solo della pastorale familiare, ma anche ad una gravissima crisi ecclesiale, molto peggiore e più radicale di quella suscitata dal rifiuto dell’enciclica Humanae vitae. La famiglia infatti è un bene essenziale per la missione della Chiesa nel mondo: senza di essa la Chiesa non può svolgere la sua missione, se essa viene distrutta, è distrutto l’uomo (come disse papa Benedetto XVI), è distrutto anche il linguaggio con cui possiamo parlare di Dio.
1) mi preoccupa come si parla di gradualità (al n. 57), che è il contrario di quanto affermato precedentemente dal magistero di san Giovanni Paolo II. Il tono comprensivo verso i peccatori è in sé buono, ma a motivo di questo si trae l’erronea conclusione di non voler condannare il peccato e così si presenta convivenze senza matrimonio e tra omosessuali come positive tappe di un cammino. Ciò è falso. La “convivenza”, ad esempio, non è una tappa verso il matrimonio, ma il contrario: essa indebolisce un futuro matrimonio, come mostrano gli studi sociali, perché è una coppia aggregativa, e non generativa; non solo è priva dei beni del matrimonio (come il vincolo pubblico, la fedeltà, l’apertura alla procreazione), ma rientra in una logica che li nega; una unione omosessuale stabile non è un passo di crescita, ma al contrario, in quanto tale  rende più difficile la vita in Cristo. Esige dunque un richiamo alla conversione e non merita una lode per gli aspetti positivi che vi si riscontrano.
2) mi preoccupa, inoltre, di come viene impostato il discorso circa l’Eucaristia, che è ricondotta ad una logica di sociologia dell’accoglienza di tutti nella Chiesa (ad es. n. 122). Essa è il tesoro della Chiesa: il sacramento del vero corpo e sangue di Cristo, segno dell’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa, legato intrinsecamente al sacramento dell’alleanza nuziale tra uomo e donna. L’ammissione di chi vive in un’unione diversa dal matrimonio sacramentale introduce una “falsità nel segno sacramentale”, direbbe san Tommaso d’Aquino. Inoltre, lasciare la decisione alle singole comunità nazionali o locali, come si è sentito proporre, quasi si trattasse di materia puramente disciplinare, aprirebbe le porte al relativismo e distruggerebbe l’unità sacramentale della Chiesa Cattolica.
3) mi preoccupa, infine, di come si parla della coscienza e del discernimento morale (n. 137), che introduce un’idea di coscienza individualistica, contraria a Gaudium et spes 16 e alla Tradizione della Chiesa. Se si accettasse la formulazione attuale del testo si cadrebbe in un soggettivismo, che nega tanto il magistero di Humanae vitae nel suo valore normativo specifico, quanto quello di Veritatis splendor sulle norme morali assolute come espressione e difesa di una verità sul bene. E quando un testo magisteriale nega un altro testo magisteriale precedente con ciò evidentemente mina l’autorità stessa della Chiesa come tale.
Vorrei ancora spendere qualche parola circa il tema della misericordia, su cui ci sono, a mio avviso molti equivoci. Separata dalla verità la misericordia diventa una povera parola umana, che può mascherare un inganno. In effetti la misericordia da sola non offre criteri per agire: essa spinge ad agire per il bene dell’altro, ma non può indicare il contenuto dell’azione. Sono le virtù morali e le norme che offrono questi contenuti e questi criteri. Altrimenti cadiamo nel sentimentalismo, che interpreta l’eutanasia come atto di pietà. Un medico compassionevole, che non conosce la sua scienza è un vero pericolo per i malati.
In questo senso anche la pastorale dev’essere intimamente unita alla dottrina. Certamente la Chiesa deve raggiungere le persone là dove sono e come sono, ma deve accompagnarle verso ciò che sono chiamate ad essere per potersi salvare: per questo è necessario esprimere un giudizio e non sottrarsi all’invito alla conversione. Una pastorale staccata dalla verità e dalla dottrina si trasforma in una strategia per guadagnarsi il consenso, cioè in una strategia per il potere. La Chiesa non dovrebbe arrossire di proporre il Vangelo nella sua integralità perché esso è forza di salvezza per l’uomo.
Ecco i miei timori. E le speranze? Evidentemente sono correlative a quanto detto precedentemente. Bisogna partire dalla famiglia come da un Vangelo e non come da un problema. E quindi partire dalla luce della fede e non dalla sociologia.
Mi sembra che dobbiamo proclamare la famiglia come la via della Chiesa. E riconoscere il grande dono che la Chiesa ha ricevuto sia con la testimonianza profetica di Paolo VI in Humanae vitae, sia con la grande teologia del corpo di san Giovanni Paolo II, che non è ancora stata adeguatamente studiata e diffusa tra i pastori e i fedeli. Non è un moralismo o un giuridicismo casuistico che ci servono (questa è una battaglia di retroguardia); è il coraggio di un annuncio positivo e integrale della verità.
In questo senso si dovrebbe insistere sulla formazione dei pastori nella pastorale familiare, sia sacerdoti che laici: una formazione positiva organica, guidata da un’adeguata visione dell’uomo e della donna, all’altezza delle sfide odierne. Il nostro Istituto è stato voluto e fondato da san Giovanni Paolo II proprio per questo, ed è oggi presente ora in 12 sedi nel mondo, comprese quella centrale di Roma e quella di Washington DC: la sua azione documenta una grande fecondità pastorale, anche se ovviamente dobbiamo ancora crescere e lavorare”.

E dal volume Dio o niente di Robert Sarah “Arriviamo perfino a usare la misericordia di Dio, soffocando la giustizia e la verità, per ‘accogliere – secondo i termini della Relatio post disceptationem dell’ultimo Sinodo straordinari dell’ottobre 2014 – i doni e le qualità che le persone che le persone omosessuali hanno da offrire alla comunità cristiana’. Questo documento, proseguiva, d’altronde, nell’affermare che la ‘questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità cristiana ed evangelica integrando la dimensione sessuale’. Il vero scandalo, in effetti, non è l’esistenza di peccatori, poiché proprio per loro ci sono sempre la misericordia e il perdono, ma piuttosto la confusione tra bene e male operata da pastori cattolici. Se uomini consacrati a Dio non sono più capaci di comprendere la radicalità del messaggio del Vangelo, cercando di anestetizzarlo, sbaglieremo strada. Poiché ecco la vera mancanza di misericordia.
Mentre centinaia di migliaia di cristiani vivono ogni giorno spaventati a morte, alcuni vogliono evitare che soffrano i divorziati risposati, che si sentirebbero discriminati perché esclusi dalla comunione sacramentale. Malgrado uno stato di adulterio permanente, malgrado una vita che testimonia il rifiuto di aderire alla Parola che eleva coloro che sono sacramentalmente sposati a essere segno rivelatore del Mistero pasquale di Cristo, qualche teologo vuol dare accesso alla comunione eucaristica ai divorziati risposati. La soppressione di questo divieto alla comunione sacramentale ai divorziati risposati, che si sono autorizzati da soli a oltrepassare la parola di Cristo – ‘L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto’ (Mt 19,6) – significherebbe la negazione dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale” (p.369).
La verità dell’unione coniugale non si esercita che all’interno di un matrimonio che comporti l’unione stabile di un uomo e di una donna il cui consenso espresso pubblicamente implica una comunione radicale di doni dell’uno e dell’altra in vista di trasmettere nel bambino il Mistero cioè la visibilizzazione sacramentale delle relazioni trinitarie della persona. All’interno della Chiesa di Cristo, le altre forme di unione sessuale, anche se comportano degli elementi che permettono loro di assomigliare al matrimonio sacramentale, costituiscono, oggettivamente, degli ostacoli alla pienezza della vita, della verità coniugale com’è voluta dal Creatore ed è affermata, resa possibile da Cristo: non si può confondere  la legge della gradualità con la gradualità della legge, esclusa dal magistero di San Giovanni Paolo II. Per un battezzato, dire che l’unione di fatto, che il concubinato o il solo matrimonio civile possono costituire obiettivamente elementi positivi in vista della pienezza sacramentale, è voler riscrivere la storia della salvezza al contrario.
Molto significativa la domanda di Nicolas Diat Nella Conversazione sulla fede  al Cardinale Sarah e la sua risposta:
“Nello scorso dicembre, il cardinale Reinhard Marx, presidente della Conferenza Episcopale tedesca, ha dichiarato: ‘La ricerca di un accompagnamento teologicamente responsabile e pastoralmente appropriato dei credenti divorziati e risposati, civilmente figura dappertutto nel mondo come una sfida urgente alla pastorale familiare e coniugale nel contesto dell’evangelizzazione’. Qual è il suo punto di vista su questo argomento che faceva parte delle domande dell’ultimo sinodo straordinario di ottobre 2014?
“Ho molto rispetto per il cardinale Reinhard Marx. Ma questa affermazione così generale mi sembra essere espressione di una pura e semplice ideologia che si vuole imporre a marcia forzata a tutta la Chiesa. In base alla mia esperienza, in particolare dopo ventitré anni come arcivescovo di Conakry e nove come segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, la questione dei “credenti divorziati o divorziati risposati civilmente’ non è una sfida urgente per le Chiese d’Africa e di Asia. Al contrario, si tratta dell’ossessione di alcune Chiese occidentali che vogliono imporre soluzioni cosi dette “teologicamente responsabili e pastoralmente appropriate”, che contraddicono radicalmente l’insegnamento di Gesù e del magistero della Chiesa. La prima urgenza nei paesi di missione consiste nella strutturazione di una pastorale che abbia come unico obiettivo il rispondere alla domanda: che cosa significa essere veramente cristiani nella situazione storica e culturale attuale delle nostre società globalizzate? Come formare dei cristiani intrepidi e generosi, discepoli zelanti di Gesù? Per un cristiano adulto, la fede in Cristo non può essere un’intuizione, un’emozione o un sentimento. Per un cristiano, la fede deve diventare la forma, la molla di tutta la sua vita privata e pubblica, personale e sociale. Quali che siano le difficoltà attuali, i discepoli di Cristo devono far valere, senza reticenze né compromessi, nella teoria e nella pratica, le esigenze della fede in Cristo, poiché sono le esigenze e i precetti di Dio. La seconda urgenza è quella di formare famiglie cristiane solide, poiché la Chiesa, che è la famiglia di Dio, si costruisce sulla base delle famiglie sacramentalmente unite e testimoni di questo Mistero di grande portata donato eternamente da Cristo. La verità del Vangelo deve sempre essere vissuta nel difficile crogiolo dell’impegno nella vita sociale, economica e culturale. Di fronte alla crisi morale, e in modo tutto speciale a quella del matrimonio e della famiglia, la Chiesa può contribuire alla ricerca di soluzioni giuste e costruttive, ma non ha altra possibilità che di parteciparvi facendo riferimento in modo vigoroso a quello che la fede In Gesù Cristo porta di proprio e di unico all’impresa umana. In questo senso, non è possibile immaginare un qualsiasi squilibrio tra il magistero e la pastorale. L’idea che consisterebbe nel porre il magistero in uno bello scrigno distaccandolo dalla prassi pastorale, che potrebbe evolversi in base alle circostanze, alle mode e alla passioni, è una forma di eresia, una pericolosa patologia schizofrenica. Vorrei affermare con solennità che la Chiesa di Africa si opporrà fermamente a ogni ribellione contro l’insegnamento di Gesù e del magistero. (…) Come potrebbe un sinodo ritornare sull’insegnamento costante, coerente e profondo del Beato Paolo VI, di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI? Pongo la mia fiducia nella fedeltà di Francesco. Nel gennaio del 2015, ho avuto l’onore di accompagnarlo nel suo viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine. A Manila, il suo discorso sulla famiglia è stato particolarmente forte: “Stiamo attenti alle nuove colonizzazioni ideologiche. Esistono colonizzazioni ideologiche che cercano di distruggere la famiglia. Non nascono dal sogno, dalla preghiera, dall’incontro con Dio, dalla missione che Dio ci dà, vengono da fuori e per questo dico che sono colonizzazioni. Non perdiamo la libertà della missione che Dio ci dà, la missione della famiglia. E così come i nostri popoli, in un momento della loro storia, arrivarono alla maturità di dire ‘no’ a qualsiasi colonizzazione politica, come famiglie dobbiamo essere molto sagaci, molto abili, molto forti, per dire ‘no’ a qualsiasi tentativo di colonizzazione ideologica della famiglia, e chiedere a san Giuseppe, che è amico dell’Angelo, che ci mandi l’ispirazione di sapere quando possiamo dire ‘sì’ e quando dobbiamo dire ‘no’. (…) Penso al Beato Paolo VI. In un momento in cui si poneva il problema della crescita demografica, ebbe il coraggio di difendere l’apertura alla vita nella famiglia. Lui conosceva le difficoltà che c’erano in ogni famiglia, per questo nella sua enciclica era molto misericordioso verso i casi particolari, e chiese ai confessori che fossero molto misericordiosi e comprensivi con i casi particolari. Però lui guardò anche oltre: guardò i popoli della Terra, e vide questa minaccia della distruzione della famiglia per la mancanza di figli. Paolo VI era  coraggioso, era un buon pastore e mise in guardia le sue pecore dai lupi in arrivo. Che dal Cielo ci  benedica questa sera!” (pp. 363-366).
Nel discorso del Santo Padre Francesco per la commemorazione del 50° Anniversario dell’Istituzione del Sinodo die Vescovi ha detto: “Alla vigilia del Sinodo dello scorso anno affermavo: ‘Dallo Spirito santo per i Padri sinodali chiediamo, innanzitutto, il dono dell’ascolto: ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del Popolo; ascolto del Popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama’. Infine, il cammino sinodale culmina nell’ascolto del Vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come ‘Pastore e Dottore di tutti i cristiani’: non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo testimone della fides totius Ecclesiae, “garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa’”. Quindi diacronicamente di tutti i 266 papi e XIV Sinodi ordinari.
“IL fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub Petro – dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro – non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità. Infatti il Papa  è, per volontà del Signore, ‘il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità tanto dei Vescovi quanto della moltitudine dei Fedeli’. A ciò si collega il concetto di ‘ierarchica communio’, adoperato dal Concilio Vaticano II: i vescovi sono congiunti con il vescovo di Roma dal vincolo della comunione episcopale (cum Petro) e sono al tempo stesso gerarchicamente sottoposti a lui quale Capo del Collegio (sub Petro)”.


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