di Giovanni Cavalcoli
A tutti in fondo piace l'imparzialità, il giudice imparziale, super partes, l'arbitro imparziale; ma molti, o impressionati dalla propria fallibilità o per motivi di comodo o perché ingannati da false filosofie, la considerano impossibile, perciò, considerano che tanto varrebbe e sarebbe saggio rassegnarsi ad accettare tranquillamente questo fatto ed anzi erigere a sistema tale scetticismo come cosa normale e legge inevitabile del conoscere e del giudicare.
Ma cos’è l'imparzialità? È quella
preziosa dote o virtù rientrante nella giustizia, per la quale la mente, considerando oggettivamente e serenamente un insieme di valori connessi tra di loro, senza lasciarsi muovere da altro interesse che quello della verità e di dare a ciascuno il suo, vede i rapporti delle parti tra di loro e col tutto, le collega e le riconduce con sapienza all'unità e sa come le singole parti scaturiscono dal principio, e quindi come ad esso vanno ricondotte.
La persona imparziale sa valutare ogni cosa nel suo giusto peso in relazione all'insieme, senza nulla dimenticare, sottovalutare o sopravvalutare, senza separarlo dall'insieme o confonderlo con altri valori o contrapponendolo ad essi, senza propendere troppo da una parte piuttosto che da un'altra, senza indebite preferenze o biasimevoli trascuratezze o disprezzo, ma con benevolenza e prudenza, nell'intento di operare per il bene dell'insieme e delle singole parti.
La parzialità invece è quell'inclinazione viziosa della volontà, sollecitata da cattivi interessi, ignoranza, pregiudizi, conformismo, opportunismo, ambizione, paura o comunque malsane passioni o distorti ragionamenti, per la quale il soggetto esagera l'importanza di una parte rispetto al tutto, finoa vedere, al limite, solo quella, quasi che tutto si risolva in quella parte.
In tal modo la persona parziale afferma solo quella parte, ne fa un idolo, escludendo ciò che invece dovrebbe accordarsi con essa. Quindi pone, per esempio, la ragione contro la fede o viceversa, il dogma contro la storia o viceversa, la tradizione contro il progresso o viceversa, il moderno contro l'antico o viceversa, il popolo di Dio contro la gerarchia o viceversa, i carismi contro il sacerdozio o viceversa, la scolastica contro la mistica o viceversa, il Concilio Vaticano II contro il ConcilioVaticano I o viceversa, e così via.
Coloro che non sanno capire o apprezzare l'imparzialità, questa preziosa virtù maestra di verità e fautrice di giustizia, di concordia e di pace, presi da malsane passioni o stolti pregiudizi, ritengono invece che ogni scelta, ogni idea, ogni presa di posizione sia sempre dettata da pallini personali o idee fisse o interessi privati o da partiti presi e che sia impossibile prescindere dal proprio io e tener d'occhio un bene comune o percepire una verità universale ed oggettiva.
Il giudizio, secondo costoro, è sempre soggettivo e incapace quindi di determinare oggettivamente e con certezza dov'è la verità e chi ha ragione o chi ha torto. Se diciamo di aver ragione è solo in base ad interessi nostri particolari e se diamo torto agli altri non è perché oggettivamente hanno torto, ma perché danno fastidio ai nostri particolari gusti o interessi.
L'assolutizzazione del proprio punto di vista o modo di vedere come l'unico vero è considerata da molti, anche se forse con un po' di amarezza e sarcasmo, cosa inevitabile e comune a tutti, dal Papa all'ultimo dei fedeli, se ne rendano o non se ne rendano conto. E se costoro negano l'addebito che loro facciamo, non crediamo loro e li giudichiamo ipocriti o prepotenti.
Quante volte sentiamo dire dai vari soloni di turno: "Per forza quel tizio dà torto a quell'altro! Va contro ai suoi interessi! Non può che ragionare così!", dove non si capisce se vuole condannare o approvare. In tal modo egli si assicura il duplice vantaggio di apparire austero censore, ma nel contempo si riserva, all'occasione, di fare lo stesso.
La radice della parzialità morale, come si osserva in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1984 , sta in una concezione della verità, come è possibile trovare nel marxismo ma non solo, per la quale la parzialità è intrinseca alla natura stessa della verità a causa di una sua ibridazione o intromissione determinata dalla prassi, e, nel caso del marxismo, dalla prassi della lotta di classe; sicché in questa concezione della verità essa è sempre costitutivamente di parte, come espressione dell'azione politica di una classe; e quindi non è la prassi che mette in pratica la verità, ma è la verità che sorge dall'esperienza della prassi di parte ovvero di classe.
Qui non si tratta tanto di mettersi dalla parte degli oppressi per la liberazione dell'uomo, il che in fondo è giusto e doveroso; ma si tratta della negazione di un principio morale universale, come potrebbero essere la legge naturale o i diritti dell'uomo, ossia un principio che sia al di sopra della divisione dell'umanità in oppressi ed oppressori, un principio o verità universale riguardanti l'uomo ed ogni uomo come tale. Non che il marxismo manchi di princìpi di fondo, ma essi consistono appunto in questa visione dialettica della verità e della realtà, di origine hegeliana.
Nel pensiero marxista viene così introdotto nella stessa nozione della verità e per conseguenza nella prassi il principio dialettico hegeliano della contraddizione. Da qui, come osserva il documento (nn. 5 e 6), il fatto che la verità perde la sua universalità e quindi la sua funzione unificante e conciliativa tra i nemici, per restringersi ad essere verità di classe dialetticamente opposta alla falsa verità predicata dalla classe borghese.
Dunque tra oppressori e oppressi non è possibile nessun dialogo, nessuna trattativa, nessuna intesa sulla base di una comune verità umana, ma funziona solo il meccanismo dialettico, ossia si dà solo lo scontro sistematico e violento. Oppressi e oppressori non hanno nulla in comune. Il conflitto va anzi piuttosto provocato per accelerare il processo rivoluzionario. Non c'è da illudersi che i padroni si adatteranno alla giustizia; lo faranno solo se costretti dalla forza.
La violenza viene così a essere necessariamente intrinseca ala verità, la quale, quindi, non può imporsi agli oppressori se non con la violenza. Esiste certo la propaganda marxista tra le masse. Il marxismo è verità; l'ideologia borghese e religiosa è menzogna. Marx non si rifiuta di credere nella verità dell'uomo, come uomo futuro liberato dal comunismo. Ma per adesso la verità è solo di parte, e anche la scienza marxista , la quale peraltro è posseduta solo dal marxista nella prassi rivoluzionaria. Marx si rifiuta di ammettere che questa liberazione e verità finali possano avvenire con altri mezzi che con quelli della violenza.
Qualcosa del genere si nota anche nel metodo del proselitismo islamico, per il quale la verità coranica, benché pretenda all'universalità salvifica, non è proposta pacificamente sulla base di una verità universale di ragione, ma imposta coercitivamente con la forza, come fece già a suo tempo notare Benedetto XVI nel suo famoso discorso di Ratisbona.
Per coloro che ragionano o meglio sragionano in questo modo è evidente che impossibile uscire dal nostro orizzonte particolare o dalla cerchia dei nostri camerati o compagni o del nostro gruppo o della nostra classe per capire le ragioni degli altri, e per aprirci all'universalità del vero, sulla base di verità o diritti universali, soprattutto se essi contrastano con i nostri interessi.
Per tutti costoro è chiaro che in fin dei conti giudichiamo non in base a criteri universali, che sono impossibili, ma sempre in funzione dei nostri interessi privati o soggettivi, princìpi ad usum delphini, che quindi non possono essere affermati e difesi se non con la prepotenza o la violenza, una violenza che sembra essere il rimedio forzato ad un'incertezza di fondo che non sa trovare un ubi consistam e la base comune del dialogo e della collaborazione fra gli uomini
Questo modo di pensare confonde indebitamente un comportamento scorretto e quindi accidentale, anche se frequente, con la legge stessa del pensare e dell'agire umano. Capita altresì che si confonda la parzialità evidentemente presente in questa condotta, con una qualunque scelta, nella società e nella Chiesa, di un partito o di un'opinione o di una particolare tendenza o di una qualunque presa di posizione che faccia uscire dalla neutralità o dall'indifferenza.
È ovvio che la parzialità denota passionalità, mancanza di equilibrio, di prudenza e di sereno giudizio, sguardo ristretto, che assolutizza una parte scambiandola per il tutto. L'essere di parte non è una cosa bella. Le persone sagge e prudenti certo fanno le loro scelte, hanno i loro gusti e le loro preferenze, ma non sono di parte. Sanno rispettare le opinioni e le scelte legittime degli altri.
Invece non ci fidiamo di un uomo di parte, soprattutto se ha un posto di responsabilità o una carica pubblica civile o ecclesiastica; a meno che non vogliamo noi stessi essere parziali per qualche forma di adulazione o di fanatismo o di dabbenaggine o di estremismo o di ambizione o per sete di dominio o di successo o per qualche idea fissa o perché schiavi dei nostri interessi.
Naturalmente altra cosa è l'uomo di partito in campo politico. Qui possono darsi persone rispettabilissime, data la funzione legittima del sistema partitico in democrazia, in quanto complesso di forze sociali al servizio del bene comune, a patto naturalmente che non pongano i propri interessi al di sopra di quelli del paese.
Certo facilmente i faziosi si mettono coi faziosi seguaci della stessa idea e così si formano nella società e nella Chiesa quelle maledette fazioni contrapposte, che sono la rovina della pace, della giustizia e della comune tranquillità sociale.
Per quanto riguarda specificamente la Chiesa, unico Corpo mistico di Cristo risultante da una molteplicità di organi, parti e funzioni, in essa non esiste e non deve esistere alcun contrasto fra gli interessi privati e quelli comuni.
A cominciare dallo stesso annuncio del Vangelo, la Chiesa distingue una rivelazione pubblica affidata agli apostoli da una rivelazione privata fatta ai profeti, ai carismatici e ai veggenti. Distingue una dottrina comune, la dottrina della fede, affidata al Magistero, da una pluralità di tendenze, spiritualità e scuole di teologia. Distingue la vita religiosa in se stessa, come valore comune, dalla pluralità dei vari istituti di vita consacrata. Distingue l'esser laico come tale dalla molteplicità delle associazioni, delle istituzioni, dei movimenti, delle iniziative e delle tendenze presenti nel popolo di Dio. Distingue, nel campo della morale e del diritto, valori e obblighi comuni e immutabili di diritto divino o naturale, dalle leggi, norme e disposizioni ecclesiastiche positive, mutevoli e contingenti nei vari luoghi e nel corso della storia, fino alle scelte personali di ciascuno di noi nella quotidianità, e così via.
L'imparzialità è una virtù che rifulge in modo speciale nel cristianesimo. Essa è dovuta all'universalismo tipico del Vangelo e alla sua straordinaria apertura di spirito e capacità di sintesi, di distinzione e di riconduzione armoniosa ed ordinata di tutte le cose a Dio, unico loro creatore, signore, giudice e salvatore, sapendo cogliere il valore di ciascuna, dalle più grandi alle più piccole.
Essa è effetto pratico della predicazione di Cristo a favore della verità, della giustizia, della carità, della larghezza d'animo, della prudenza, dello spirito di pace e di concordia. È eminentemente la virtù dei sapienti, dei capi, dei superiori, dei vescovi, dei profeti, dei governanti, dei dirigenti, dei genitori, dei docenti, dei magistrati, dei legislatori, e insomma di tutti coloro che sotto ogni rispetto sono responsabili del buon ordine, dell'unità e della pace della comunità civile ed ecclesiastica, incaricati di mantenere e difendere l'unità nella pluralità, risolvere e appianare i contrasti, e di placare e riconciliare i nemici, nell'obbedienza alle leggi e nel rispetto dei diritti di tutti.
Nulla essa ha a che vedere con un’equivoca tiepidezza, con una sleale equidistanza tra il vero e il falso, tra il bene e il male; non è l'opportunistico tenersi fuori dai conflitti per non avere noie e per evitare di difendere chi ha ragione e di confutare chi ha torto, il tenersi buoni tutti per non scontentare nessuno. Non è questo lo stile di Cristo e quello dei santi, altrimenti la giustizia non trionferebbe, i martiri non esisterebbero, i peccati non sarebbero perdonati e i malvagi non sarebbero puniti.
Al contrario, essa sa prendere posizione con coraggio e saggezza, definisce chiaramente le condizioni della pace, mantiene desta la speranza, rifugge da amarezze e recriminazioni, sa vedere il positivo laddove altri vedrebbero il pericolo, sa scoprire e indicare l'insidia laddove altri non ci farebbero caso, sa riconoscere ai contendenti virtù e difetti e proporre col dovuto modo quei punti di accordo e di contatto, che, nella giustizia e nella misericordia, conducono alla pace.
Oggi c'è grande bisogno nella Chiesa di uomini e donne di questo calibro, generosi e ben preparati, soprattutto fra teologi e pastori, perché ci troviamo in un periodo di gravissime divisioni interne e di ostinate quanto grette parzialità e contrapposizioni, ciascuna delle quali vanta per sé il titolo di cattolico e lo esclude dall'altra.
Nonostante la venuta di un Concilio, il cui scopo primario era appunto di conciliare ed avvicinare i lontani, ancora a cinquant'anni dalla sua venuta, nonostante tutto il parlare che si fa di dialogo, di pluralismo, di carità, di riforma, di conversione, di misericordia e di tolleranza, ancora i nemici si guardano in cagnesco o si disprezzano vicendevolmente, incapaci di scorgere il bene che c'è nell'altro e di correggersi dai propri difetti.
In mezzo a questa tempesta certamente non è facile guidare la barca di Pietro. Eppure essa non affonda, perché Cristo è in lei, anche se apparentemente adesso Egli sembra dormire. Pietro è restato sveglio e si affanna a remare, sapendo che Cristo non lo abbandonerà.
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