Chi non si ricorda del cappa e spada? Quel genere reso celebre da libri e film ambientati a cavallo tra XVII e XVIII secolo, soprattutto in Francia, con cavalieri intrepidi (spesso mascherati) sempre in sella e sempre pronti a duellare di lama, dame da salvare e briganti smargiassi e spacconi (solitamente bearnesi e guasconi) ma dal valore cristallino e dal cuore d’oro? Con quelle trame costituite da un’impresa da compiere per una nobile causa contro un nemico spietato e risoluto e una variegata schiera di bravacci e tagliagole prezzolati? Dispiace essere brutali, ma del cappa e spada oggi non si ricorda proprio nessuno: sebbene talvolta molti dei suoi
elementi ritornino sotto le spoglie del fantasy o della fantascienza, è triste constatare che le giovani leve di lettori siano del tutto all’oscuro di questo genere (fatta eccezione forse per I tre moschettieri di Dumas che, ciclicamente, è alla base di una qualche trasposizione cinematografica o televisiva che, nonostante i risultati spesso osceni, è in grado di ridestare l’attenzione generale verso l’argomento).
Il
Seicento e il Settecento erano tutti un saettar di lame!
Noi delle Edizioni Gondolin sosteniamo l’attualità del genere cappa e spada e abbiamo pensato di
riportarlo in vita riproponendo uno dei suoi massimi esempi, Il cavaliere di Lagardère o il gobbo misterioso di Parigi (titolo originale Le bossu) di Paul Féval,
pubblicato nel 1858 e da tempo sparito dal mercato editoriale italiano. Ci
riusciremo? Questo sarete voi a deciderlo, cari lettori. Forse vi lascerete
condizionare dal triste pensiero unico che ha condannato l’editoria al triste
stato attuale e che bolla questi romanzi come noiosi, fuori dal tempo o, ancora
peggio, “cose per ragazzi”, non adatte alla complessità della nostra epoca e
alla profondità di chi fa Letteratura vera. O forse invece vi farete
conquistare dagli ingredienti sapientemente miscelati da Féval: l’amicizia, la
vendetta, l’amore, la gelosia, l’intrigo e soprattutto la
rievocazione di un’epoca nella quale uomini mettevano in gioco la vita per la
difesa dell’onore.
“Quelli che sono nella tomba
non parlano.”
“Parlano quando Dio lo vuole!”
replicò Lagardère.
Ma di che
cosa parla Il cavaliere di Lagardère?
Di un giovane spadaccino rubacuori e scavezzacollo, Henri de Lagardère che, in
una regione pirenaica della Francia di Luigi XIV, nel 1699, si ritrova al
centro di un complotto ordito dal principe di Gonzaga per uccidere il duca di
Nevers, sposarne la vedova e impossessarsi della fortuna della figlia Aurore.
Giura al morente Nevers di prendersi cura della figlia e al suo misterioso
assalitore di vendicarsi (“Se tu non verrai da Lagardère, Lagardère verrà da te”),
scappa con la piccola Aurore e la alleva facendole credere di
essere suo padre. Lo ritroviamo 19 anni dopo a Parigi, durante la scintillante
reggenza di Philippe d’Orléans: travestito da gobbo, è pronto a conquistarsi la
fiducia di Gonzaga (il malvagio assassino e usurpatore) e di realizzare la sua
vendetta. Ovviamente, la realizzazione della stessa è resa possibile grazie al
colpo segreto posseduto da Lagardère, la botta di Nevers, una micidiale
stoccata in mezzo agli occhi che non lascia speranza a chi la riceve: Féval
descrive il procedimento per metterla in atto con dovizia di particolari,
attingendo alla terminologia della scherma, cosa che gli riuscì unicamente in
virtù del suo grande talento di scrittore dal momento che, come ebbe poi a
confessare suo figlio, egli ignorava del tutto simile arte bellica.
“Indirizza in terza, colpo diritto trattenuto! Para! Colpo
destro, rimetti a fondo… para prima e risposta! Passa sulla spada e agli occhi!
Parata, terza a tempo sulla rimessa… Prima, due volte, evita, fermati e il giro
è fatto.”
La
narrazione non è così ovvia e lineare come si potrebbe pensare, perché tutta la
terza parte corrisponde alla rievocazione dell’infanzia di Aurore e delle sue
avventure per sfuggire agli zingari e ai sicari di Gonzaga grazie alla
protezione di Lagardère attraverso il diario che la fanciulla scrive
rivolgendosi alla madre sconosciuta, ed è quindi interamente in prima persona.
Magari è una parte un po’ ingenua, piena di melassa e di entusiasmo facilone,
ma non bisogna dimenticare che è il punto di vista di una ragazza ingenua e
innamorata (Aurore ama Lagardère, non certo come padre). E il fatto che si
rivolga a una madre che non ha mai conosciuto e di cui non sa nemmeno l’identità
è una trovata notevole.
Il cavaliere di Lagardère ci riporta ai bei tempi in cui le fanciulle tenevano un diario e non perdevano il loro tempo su
Facebook!
Dalla quarta alla sesta parte, invece, è messo in
scena l’ingegnoso intrigo attraverso cui il gobbo riesce a smascherare pian
piano Gonzaga agli occhi del reggente per realizzare la propria vendetta, con
la frequente variazione dei punti di vista tra Lagardère, Aurore e a sua madre
(che in quanto a orgoglio e gelosia non è seconda a nessuno). Quello che è
importante sottolineare è che l’introduzione del gobbo permette all’autore di
ampliare di molto il suo raggio di azione: se i cattivi ci sono e sono
memorabili (il malefico Gonzaga e il suo lugubre scherano Peyrolles), il
protagonista non sarebbe lo stesso se rimanesse sempre e solo Lagardère.
L’eroe, per forza di cose, in romanzi come questi non può che essere retto,
puro, onesto, eroico, pronto a dare la vita, e infatti Henri de Lagardère è
tutto questo, se non di più: addirittura, non osa confessare ad Aurore il suo
amore per lei nonostante sappia di essere ricambiato dalla fanciulla. Il fatto
che Féval lo faccia travestire da gobbo rappresenta un espediente narrativo di
incredibile efficacia: il gobbo è, per sua natura, un personaggio liminare, di
confine, borderline, a cavallo tra la normalità e il bizzarro. È grottesco, sardonico,
volgare, a volte anche brutale, e viene accettato dalla società (e sempre fino
a un certo punto) solo in quanto infido, intrigante e utile per uno scopo
sinistro e malvagio.
“Io
voglio che mi si ami,” disse con accento di sincera ferocia, “tanto peggio per
quelle che non ci riescono!”
Infine,
una parola sull’ambientazione storica. Il
cavaliere di Lagardère non si limita a prendere la Francia del Seicento
come in tutti gli altri romanzi del genere cappa e spada, perché immerge tutta
la seconda parte della vicenda nel periodo della Reggenza di Philippe
d’Orléans: questi, succeduto a Luigi XIV approfittando della minore età di
Luigi XV, si è lasciato conquistare dal ricchissimo finanziere Monsieur Law (figlio di un orefice) e ha
iniziato un’abile politica economica dando vita a un sistema finanziario
moderno, con tanto di borsa e di banche private. Tutti gli speculatori del
periodo spendono cifre astronomiche per garantirsi un posto nel business e a
corte si organizza perfino un gran ballo con spettacoli pirotecnici per celebrare
il credito e le speculazioni coloniali, che mette la Francia a capo di tutte le
nazioni e sancisce la fine di carestie, miserie e guerre. Ecco quindi che il
romanzo assume le connotazioni di specie di riflessione disillusa sulle
illusioni della finanza e di una ricchezza che garantisce l’impunità (tanto che
il perfido Gonzaga, ricco tanto se non più del reggente, dichiara spavaldo: “Ho
sufficienti milioni per comperare tutta la giustizia della terra”) e il nostro
Lagardère, travestito da gobbo,
sotto le
sembianze di un antieroe negativo che affitta la gobba agli speculatori e ai
commercianti di azioni, diventa il campione di una battaglia per l’onestà e la
libertà.
“Fu un’epoca straordinaria. Non si può dire che si stata calunniata. Gli scrittori di allora e anche qualche storico le scagliarono i loro anatemi, ma non alterarono in nulla la verità. Fu il regno dell’orgia e l’oro fu Dio.”
Philippe d’Orléans
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Anche le fanciulle leggono Il Cavaliere di Lagardère ^_^
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