Gettiamo le reti

di Giovanni Cavalcoli
Come è noto, Cristo paragona l’opera dell’apostolo, del pastore e dell’evangelizzatore a quella di un pescatore (Mt 4,19), il quale getta la rete, magari dalla barca in alto mare, cosicchè raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13,47). Dopo la pesca, però, occorre fare un vaglio: trattenere i pesci buoni e gettar via i cattivi.
Al pescatore dunque si richiedono due qualità: intraprendenza e discernimento. Non deve temere di affrontare il mare aperto e gettare la rete, invece di starsene
comodamente a riva per consumare il pesce già pescato. 
Ma non deve neppure essere spericolato, affrontando magari un mare troppo mosso e deve essere giudizioso, dopo la pesca, nel fare il discernimento, perchè certi pesci cattivi sembrano buoni e certi buoni sembrano cattivi. Gli sarebbe dannoso mangiare i primi e gettare i secondi.
In questa parabola del pescatore ci sono in sintesi le qualità e i rischi dell’apostolo: andare con coraggio verso tutti, saper attirare la gente, vagliare poi i risultati ottenuti. L’unica cosa che non combacia esattamente è il mezzo per attirare e cioè che l’apostolo non deve attirare con l’inganno, ma con mezzi onesti e leali. Manca in questa parabola, se vogliamo, l’attenzione ai poveri, ai quali con particolare cura dev’essere annunciato il Vangelo, come Cristo dice chiaramente altrove. 
La parabola dei pescatori assomiglia a quella del grano e del loglio (Mt 13,25), in quanto entrambe fanno riferimento al giudizio escatologico riservato a Dio, alla fine del mondo, il cosiddetto “giudizio universale”. Tuttavia Cristo e la Scrittura in genere inculcano in più modi e a più riprese il dovere di ognuno e soprattutto del pastore e della guida della comunità, di saper distinguere i buoni dai cattivi, le vere dalle false dottrine, le azioni giuste da quelle peccaminose,  sia pur sempre con la riserva di poter sbagliare e lasciando a Dio il giudizio finale.
Questa parabola assomiglia anche a quella del banchetto di Mt 22, dove il padrone di casa comanda ai servi: “andate ai crocicchi delle strade, e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Ma ecco però che compare uno che non ha l’abito di nozze e che pertanto viene cacciato, tanto che la conclusione è chiara: “molti sono i chiamati, ma pochi eletti”.
Se in Palestina fosse diffuso il cibarsi di funghi, certamente Cristo avrebbe proposto anche una parabola sulla raccolta dei funghi: raccoglierne il più possibile; ma poi bisogna distinguere quelli sani da quelli velenosi.
Oggi, al riguardo, ci troviamo di fronte a due comportamenti sbagliati: c’è una grande maggioranza, che occupa spesso posizioni di potere nella Chiesa, ufficiali o non ufficiali, la quale, preoccupata di essere moderna, attenta a tutte le culture e religioni, e aperta a ogni genere di dialogo, desiderosa di tralasciare la scorta di pesce giacente in dispensa, e di uscire in mare aperto, propensa a lasciare le terre già coltivate per andare alle periferie del mondo, teme che il precisare l’identità del cattolicesimo opponendosi a ciò che gli è contrario la chiuda in questa identità e le impedisca di apprezzare il buono e il nuovo che è al di fuori e di aprirsi ad esso. 
Essa getta le reti, ma poi prende tutto quello che c’è senza fare nessun discernimento, perchè crede che in fondo non esistono pesci cattivi. È lo stile del buonismo. Per esso al banchetto di nozze resta anche chi non ha l’abito di nozze. Il padrone è rispettoso del pluralismo e lascia ciascuno vestirsi come meglio crede. Tutti sono eletti. Se c’è qualcuno da escludere, sono proprio quelle persone arcigne e prive di misericordia che dicono che non tutti si salvano.
 L’unica cosa importante per i buonisti è raccogliere la massima quantità di pesce possibile. Per questo, a essi interessa l’ampiezza della rete e il coraggio di andare al largo, quale che sia il pesce che poi viene pescato.
Per converso, esiste una piccola ma tenace minoranza, emarginata per non dire disprezzata e perseguitata da molti esponenti della classe al potere, la quale è tutto l’opposto: spesso ammiratrice della teologia scolastica, avverte l’immutabilità dei dogmi, si sente bisognosa di sicurezza e di conservare la tradizione e, timorosa di affrontare il nuovo e il mare aperto, se ne sta chiusa nel proprio ambiente tradizionale, un laghetto molto piccolo, dove è certa di trovare solo pesce buono, mentre è convinta che ad uscire in mare aperto, incontrando altre culture e religioni, appaiano solo mostri pericolosi che contaminano l’identità cattolica provocando uno scandaloso sincretismo. 
La sua preoccupazione quindi è quella di aver ben chiara la propria identità e di stare solo al suo interno, ben difesa dagli attacchi dei mostri che provengono dal mare. Teme la novità dottrinale, anche quella proposta dal Magistero, perché, “alla luce della tradizione”, la vede come rottura con la tradizione stessa. Il Magistero pontificio va bene fino a Pio XII, ma non oltre. 
Queste due fazioni dividono ciò che dovrebbe stare unito: spaccano la verità in due tronconi. L’una se ne prende uno, l’altra si prende l’altro e li mettono l’uno contro l’altro: l’identità contro l’apertura, la tradizione contro il progresso, la conservazione contro il rinnovamento, l’universalità contro la pluralità, l’evangelizzazione contro la confutazione degli errori, il primato del cristianesimo contro il dialogo interreligioso, il Concilio Vaticano I contro il Concilio Vaticano II, e così via.
I buonisti sono troppo preoccupati del successo, approssimativi per non dire relativisti nella dottrina, facili nell’accusare il Magistero di arretratezza, troppo indulgenti nella morale e nella pastorale, sciatti e dissacratori nella liturgia. 
I conservatori, all’opposto, sono incuranti delle buone maniere verso i lontani, di come acquistarsi stima presso gli avversari, di evidenziare i punti in comune, troppo puntigliosi nella liturgia, audaci nell’accusare il Magistero moderno di tradire la tradizione, sprezzanti nei confronti degli avversari, chiusi a quanto può costituire motivo di accordo e di collaborazione con i non-credenti e i fedeli delle altre religioni.
I buonisti, invece, per timore di farsi dei nemici e per piacere al mondo, scendono a patti con la verità. I conservatori, dal canto loro, per la loro rigidezza e cocciutaggine, e per il loro irragionevole disprezzo del mondo e della modernità, si procurano dei guai che potrebbero evitare e si tirano addosso dei nemici, che invece potrebbero essere amici.
Ora, dobbiamo osservare che progresso e tradizione sono due tendenze naturali in ogni sana società, compresa la Chiesa. Diventano fenomeni morbosi quando, nella Chiesa, il tradizionalismo sconfina dall’ortodossia e disprezza il Magistero contemporaneo con la pretesa di appellarsi direttamente alla Tradizione, dimenticando che è il Magistero vivente l’interprete ufficiale della Tradizione e non siamo noi come semplici fedeli, fossimo anche dottissimi teologi. 
E si ha anche fenomeno morboso quando si esce dall’ortodossia dalla sponda opposta, ossia si crede di essere moderni assumendo acriticamente la modernità senza vagliarla alla luce del Vangelo, ma anzi prendendo dal Vangelo solo ciò che piace alla modernità, oppure appellandosi, come i protestanti, direttamente alla Scrittura per contestare il Magistero, a loro dire “fondamentalista” e non aggiornato.
Chiediamoci come possiamo conciliare, avvicinare o riunire tra di loro questi due tronconi di verità liberandoli dalle esagerazioni e dalle unilateralità, che falsamente li mette “l’uno contro l’altro armati” (Manzoni). I due partiti soffrono di errori comuni, anche se poi speculari l’uno all’altro.
Sbagliano innanzitutto nel considerarsi i veri cattolici, disprezzando l’altro partito e ignorando la posizione equilibrata dei cattolici normali, che, grazie a Dio, sembrano essere la maggioranza, fedeli ai propri vescovi e al Papa. 
Oppongono falsamente continuità e progresso. Gli uni in nome del nuovo, del moderno e del progresso disprezzano il tradizionale, l’immutabilità del dogma, la cura della propria identità cattolica, la sollecitudine nel liberare le anime dall’errore, dal peccato e dall’eresia.
Gli altri, incapaci di capire che il nuovo nasce dal vecchio e il progredito è lo sviluppo dell’antico,  si irrigidiscono in un passato ormai finito confondendolo col perenne, come se il nuovo fosse cattivo per il solo fatto di essere nuovo. 
Entrambi non riescono a combinare assieme nel cristianesimo l’elemento universale, immutabile ed assoluto con quello mutevole della particolarità e della relatività. I buonisti, con atteggiamento illuministico e antropocentrico, vedono l’universalità solo sul piano secolare della giustizia sociale e dei diritti umani, relativizzando in maniera indifferentistica i dogmi della fede con la scusa del pluralismo e dell’inculturazione. 
Privi del senso dell’universalità del Vangelo, promuovono un universalismo d’accatto e confusionario, che è un’accolta sincretistica delle idee e dei comportamenti più opposti anche allo stesso cristianesimo. 
I conservatori, viceversa, chiusi in una razionalità solamente occidentale oppure con atteggiamento fideistico che ricorda Lutero, finiscono con lo svalutare o restringere la portata universale e pluralistica della ragione, per concentrarsi su di un’universalità e verità della fede, la quale peraltro, priva di sufficiente supporto o respiro razionale, rischia di degenerare in un devozionalismo o integrismo superati.
Come tutti gli estremisti, conservatori e buonisti non sanno apprezzare i cattolici normali ed equilibrati, i quali respingono entrambe le estreme, e sono in piena comunione con la Chiesa e col Papa. Alle estreme i cattolici normali sembrano viziati da doppiezza, opportunismo e adulazione per il Papa, mentre sono proprio questi che sono in grado di capire pregi e difetti delle estreme, quindi capaci di unire, se venissero ascoltati, i pregi e togliere i difetti. 
Sono i veri fautori di pace e concordia nella verità, anche se spesso capita che le prendano dagli uni e dagli altri. Per ciascuna estrema vale infatti la convinzione che sarebbe meglio chiamare “fissazione”, che  essa raccoglie tutti i buoni, mentre tutti gli altri sono i cattivi. Chi tenta di stare in mezzo è un falso, un ambizioso o un “papolatra”, come dicono.
In realtà conservatori e progressisti, se rinunciassero al fanatismo e alla presunzione e cominciassero a ragionare, si accorgerebbero che sarebbero fatti per completarsi a vicenda, e quindi devono incontrarsi e dialogare in nome della verità, della carità e della pace nella Chiesa e per favorire veramente la diffusione del Vangelo. Occorre gettare le reti assieme a largo raggio come fanno i progressisti, ma badando poi a separare i pesci buoni dai cattivi, come suggeriscono i tradizionalisti.
Al riguardo, il Papa, che pur tanto insiste nell’esortare ad uscire e ad andare nelle periferie, ha di recente ricordato la necessità di essere coscienti della propria identità e di testimoniarla con franchezza. Il dialogo, ha detto il Pontefice, non è un muoversi “nella nebbia”, ma implica chiarezza e lealtà da ambo le parti. 
Chi è conscio della propria identità non è portato a chiudersi, ma ad aprirsi all’altro, al diverso e anche all’avversario, perchè la confutazione dell’errante è atto di carità e ciò che consente il dialogo è la diversità dei dialoganti, ognuno dei quali ha il proprio dono e la sua identità. 
Solo così è possibile il confronto, la correzione e istruzione reciproche, nonché la comunicazione e l’intesa. Se io non so chi sono io o nascondo la mia identità, se non capisco l’identità dell'altro, che cosa concludo? Su quale base mi intendo con l’altro, o non creo piuttosto l’equivoco e il malinteso?
La Chiesa è una persona viva, è la Sposa di Cristo, vive nella comunione e nell’amore, in una pluralità di organi tra loro in armonia. Come ogni vivente, essa possiede un’essenza immutabile e una vita che è azione, variazione, movimento, progresso. Questi due fattori quindi devono stare assieme e sostenersi a vicenda: l’essenza dà origine all’azione e l’azione perfeziona l’essenza.
Ognuno di noi sia dunque pronto a riconoscere il dono dell’altro; evitiamo tutto ciò che può offendere il fratello; cerchiamo di non attaccarci all’accidentale e badiamo alla sostanza; siamo fedeli all’essenziale, aperti al nuovo e pronti a lasciare il caduco; si pratichi la correzione fraterna, ma sia fatta con carità, competenza e franchezza, senza arroganza, saccenteria, sarcasmi e diffamazioni. Ricordiamoci della profezia di Cristo: “Si farà un solo gregge con un solo pastore” e della sua commovente preghiera al Padre: “che essi siano una sola cosa, come noi siamo una cosa sola”.

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