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di Lorenzo Fazzini
Il segreto è tutto qui: «Se si trattasse di principi giusti, non ci sarebbe bisogno di mascalzoni per attuarle. Il fatto che ovunque ci sono solo perversi e mascalzoni, dimostra che quei princìpi di Marx e Stalin sono falsi e sbagliati, ingannatori. Per questo il Paese è pieno di gente così schifosa!». Il Paese è l’Albania, meta del viaggio apostolico di papa Francesco previsto domenica 21 settembre; i 'princìpi' sono quelli del comunismo, anzi del 'socialismo reale' in quello che è stato probabilmente uno degli esperimenti più drammatici di applicazione ferrea e dogmatica del
marxismo. Soprattutto sul fronte religioso: se addirittura nella 'patria' del bolscevismo, l’Urss, la Costituzione manteneva una (seppur fittizia) libertà di religione, a Tirana e dintorni la Carta espressamente imponeva la cancellazione di Dio dal cuore e dalla testa delle gente. Al riguardo è illuminante il testo di Didier Rance,
Hanno voluto uccidere Dio. La persecuzione contro la Chiesa cattolica in Albania (1944-1991), che viene ripubblicato ora da Avagliano.
Ora un nuovo libro racconta, nella forma di una biografia romanzata, la persecuzione comunista nel Paese delle aquile contro ogni anelito religioso dell’uomo. En passant: venivano incarcerati cristiani di tutte le confessioni, così come ebrei e musulmani (un dato che anche accomuna Paesi socialisti diversi, come testimonia Ioan Plorascu, vescovo rumeno imprigionato per 15 anni nel suo recente Catene e terrore, Edb). Lo spunto della prova narrativa di Marcel Hila, avvocato cattolico di Tirana, Dio scende all’inferno. Sofferenza e salvezza nelle carceri dell’Albania comunista (Fede & Cultura, pp. 558, euro 18), è la vicenda di padre Anton Luli (1910-1998), gesuita come Francesco, rettore del collegio della Compagnia di Gesù a Scutari, incarcerato nel 1946 per «agitazione e propaganda contro il regime»: scontò 17 anni dietro le sbarre e altri 11 ai lavori forzati.
Il racconto di Luli nel libro è più veritiero della verità quando parla delle violenze subite: «Mi hanno preso un filo elettrico e me lo hanno messo sulle orecchie. Una guardia corpulenta è saltata coi suoi stivali sopra di me. Mi ha rotto una costola. Alla vigilia del Natale del 1947 la guardia mia ha ordinato di spogliarmi tranne i pantaloni. Era una notte fredda e pioveva. Mi hanno portato in bagno, c’erano cumuli di escrementi e un insopportabile odore di urina. Hanno preso una corda, me l’hanno passata sul petto, poi sotto le ascelle e mi hanno sollevato. Solo le punte delle dita dei piedi sfioravano il pavimento. I miei brividi erano così forti che ho cominciato a dibattermi e sussultare, perdendo ogni controllo su di me». E anche alla fine del libro si assiste ad una scena di tortura quasi indescrivibile. Queste sevizie accaddero nel dipartimento degli Affari interni di Scutari, che il governo del sadico presidente Enver Hoxha aveva requisito ai francescani: era un seminario e divenne una centrale di persecuzione anti-cristiana. Ma dopo la fine del regime, nel 1991, divenne un monastero di clarisse: anche la storia sa vendicarsi, pacificamente… Non così Luli, invece: una volta liberato, un giorno incontrò per strada per caso uno dei suoi persecutori e lo abbracciò pubblicamente, a significare l’assenza di ogni astio o rivendicazione d’odio.
È padre Anton il personaggio che intorno a cui ruota silenziosamente questa prova letteraria che offre uno spaccato di verità su una pagina da un lato drammatica, dall’altro luminosa. Drammatica per la portata della persecuzione anti-religiosa, basata sui concetti chiave del marxismo: «A noi afferma ad un certo punto un carcerato - i comunisti dicevano che la religione ha preso la parte del forte e condannato il debole. Ci dicevano che la scienza rende superflua la religione, che Dio non c’è, che il comunista deve essere ateo, che la religione cerca la sottomissione dei poveri». Luminosa perché uno dei filoni del libro è la vicenda intrafamiliare di Gjelosh Gjeto Kola, un cattolico montanaro che viene condannato per la delazione (obbligata e ottenuta con la forza, ma lui lo scoprì molto tardi) di suo figlio Ndoja, in favore del quale intervenne il 'solito' padre Luli. Ndoja saprà poi riabilitarsi quando decise, in un’adunata pubblica convocata ad hoc, di non accusare di 'attività anti-comuniste' un prete che le autorità volevano mandare al patibolo. In questa storia di tradimento, fede, martirio e onore (concetto quanto mai forte nella cultura albanese, come traspare dal romanzo, basato - tiene a precisare l’autore - solo su fatti veri e riferiti da testimoni oculari), emerge tutta la durezza e il coraggio di chi seppe dire no e salvare la dignità di se stessi nel non accusare ingiustamente gli altri per aver salva la propria vita.
Fenomenale il coraggio apostolico di padre Luli, che dopo la scarcerazione ebbe modo di incontrare e parlare davanti a Giovanni Paolo II. Diede alle stampe (Adp) una sua testimonianza, Già dato per martire... I fioretti di un gesuita albanese. La biografia romanzata che ne fa Hila è attraversata dalle sue parole, dalle sue discussioni con altri compagni di carcere su Dio, il male, la sofferenza, l’ingiustizia… Così come dalle denunce - paradosso! - di quei comunisti che con Hoxha avevano creduto nell’avvento di una società giusta made falce e martello: «La vera tragedia - scrive Hila - era riservata agli ex comunisti perché erano stati condannati dal loro stesso partito, da quelli con cui avevano combattuto e si erano dati da fare insieme per instaurare il regime. Soffrivano perché non si capacitavano di come potessero essere considerati nemici coloro che avevano preso le armi, erano andati sulle montagne, avevano abbandonato tutti, avevano sacrificato persino gli averi della loro famiglia, la vita e la giovinezza, per poi venire arrestati come nemici del popolo e del socialismo che era stato il loro sogno».
Alla fine, cosa resta? Nelle ultime pagine del testo c’è un singolare battesimo 'clandestino' di un prigioniero che chiede a Luli di diventare cattolico: «Abbassa la testa senza dare nell’occhio. Fai finta di controllarmi i polmoni, posa la testa sul mio petto. Io ti aspergerò tre volte con acqua. Nessuno si renderà conto». Un po’ di quell’acqua che ha sconfitto oltre mezzo secolo di violenza e menzogna. Francesco va in Albania anche per ricordare a noi cristiani spesso 'adagiati', tutto questo.
© Avvenire, 13 settembre 2014
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