Vangelo e morale

di Giovanni Cavalcoli
Possono a tutta prima sorprendere le parole del Card. Reinhald Marx, nuovo Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, recentemente pronunciate e riportate nell’edizione di Vatican Insider del 14 marzo 2014. Egli infatti mette in rapporto la morale col Vangelo così da dar l’impressione che il Vangelo non insegni una morale o non s’interessi di morale.
 Il Card. Marx nega infatti che “la morale sia l’essenza del cristianesimo, come se Gesù avesse soprattutto pensato a cementare la nostra società con la morale. Non riesco proprio
a trovar conferma, scorrendo le pagine del Vangelo, che questa sia stata la sua preoccupazione primaria”.
Vorrei osservare che se la morale non esaurisce l’essenza del cristianesimo, indubbiamente una buona morale è essenziale al cristianesimo ed è da esso insegnata. Nessuno può mettere in dubbio il prezioso apporto che i princìpi della morale evangelica hanno dato allo sviluppo della civiltà e della cultura mondiale. Forse che quindi questa morale non è una forza spirituale decisiva per la coesione e la pace nella società? E qual è stato il pensiero sommo di Gesù, il vertice della sua missione, così come risulta dalle narrazioni evangeliche, se non quelli di portare pace e concordia nell’umanità?
Ci potremmo chiedere: ma cha cosa intende il Porporato per “morale”, così da estrometterla, almeno così pare, dal Vangelo e dalle “preoccupazioni” di Cristo? Diciamo innanzitutto con franchezza - sorpresa per sorpresa - che il termine “morale” non compare mai nel Nuovo Testamento e nell’intera Bibbia, e neppure esso ha un vero corrispettivo. Il Vangelo non parla mai di “morale” in generale o astrattamente presa, non ne dà mai una definizione come farebbe un trattato di morale, anche se è ricchissimo, di fatto, di temi morali.
La parola “morale” infatti ha origine da mores, che nella latinità classica sono gli atti umani abituali, quelli che appunto chiamiamo “costumi morali”. Nella cultura greca abbiamo ethos, da cui l’Etica di Aristotele. Un termine in qualche modo corrispondente nel Nuovo Testamento è quello di “condotta” (anastrofè: Gal  1,13; I Pt 1,15; 3,1; II Pt 3,11). Ma la condotta non ha la pienezza di significato di “morale”, che non si limita alla condotta pura e semplice, ma riguarda la condotta in quanto può essere buona o cattiva, ossia in rapporto al bene o al male, all’azione buona o all’azione cattiva, al conseguimento o al fallimento del fine dell’uomo.
Se però nel Vangelo manca una parola esattamente corrispettiva, non è assente il concetto di “morale”, intesa come ciò che riguarda l’agire umano rispetto al bene o al male. Regola dell’agire umano, com’è noto, nel Vangelo come in tutta la Bibbia, è il comandamento divino, la volontà divina, la legge (Torà) rivelata da Dio a Mosè, confermata da Cristo e principio di una superiore giustizia, ossia la legge della carità, che, come dice Cristo stesso, dev’essere superiore a quella degli scribi e dei farisei.
Tuttavia la morale nella cultura classica è una condotta come semplice effetto della volontà umana indirizzata all’acquisto della virtù (virtus, aretè), secondo una norma dettata dalla ragion pratica, in conformità ai fini della natura umana. Prendiamo per esempio la morale stoica. La morale, come per esempio in Aristotele, detta quello che l’uomo deve fare per essere felice. Non fa riferimento a valori divini o a leggi rivelate da Dio come nella Scrittura.
 Infatti il mondo classico pagano non ha coscienza del fatto che l’uomo è creato da Dio, per cui non sa neppure che la perfezione dell’agire umano è data dalla piena adesione alla volontà divina. E non ha neppure consapevolezza delle ferite del peccato originale, quindi non ha un vero concetto del peccato e della sua remissione, per cui l’uomo può raggiungere la virtù solo col perdono divino e il soccorso della grazia.
 Esiste bensì l’idea di un pentimento, di un castigo o di una riparazione; ma ciò, anche quando è compiuto per placare la divinità, è in fondo solo un atto dell’uomo, che non ha bisogno per compiere questi atti di alcuna grazia divina, a differenza del cristianesimo, nel quale solo Dio rimette i peccati. Da qui la riparazione compiuta dal sacrificio del Figlio di Dio. Tutte queste verità sono ignote alla morale pagana. Per questo può diventare problematico, per quanto riguarda il Vangelo, anche l’uso stesso del termine “morale”.
In questo senso infatti la morale pagana non coincide con la morale biblica e in tal senso questa potrebbe anche non essere chiamata “morale”. Questo probabilmente è il senso di ciò che il Card. Marx  intende dire. Questo modo di esprimersi è evidente e cosciente in Lutero, mentre non corrisponde a quello della tradizione cattolica, la quale ha assunto, benchè con molte riserve - vedi le difficoltà di S.Agostino -  i valori della morale pagana e li ha armonizzati con quelli della Bibbia. 
Da qui il sorgere di una morale cristiana o cattolica, di una teologia morale, oltre che di una filosofia, una scienza e una casistica morale, nonché il concetto di morale soprannaturale. Questo linguaggio è divenuto corrente nella Chiesa cattolica, soprattutto grazie all’opera di S. Tommaso d’Aquino e degli Scolastici, che, come è noto, hanno utilizzato l’Etica di Aristotele e poi nella stessa tradizione del Magistero della Chiesa sino ai nostri giorni.
Il modo di esprimersi del Card. Marx probabilmente intende rispondere alle esigenze dell’ecumenismo; tuttavia ritengo che sia bene mantenere anche il tradizionale linguaggio cattolico, che troviamo non solo nella tradizione omiletica, pastorale e giuridica, ma anche nella terminologia degli studi ecclesiastici, dove abbiamo l’insegnamento corrente della teologia morale.
Nei termini occorre intendersi. Essi come dicevano gli Scolastici, sono ad libitum. L’importante è intendersi sui concetti.  Il termine “morale” ha certamente i suoi vantaggi, ma anche i suoi limiti, come ogni parola umana, per quanto veneranda, come certamente è questa parola. È quindi sempre importante chiarire il senso nel quale usiamo un certo termine, che può essere assunto in sensi diversi. 
Il disprezzo per questo termine ha inizio in campo cristiano con Lutero, non senza qualche ragione, come abbiamo visto, dato che si tratta di un concetto di origine pagana, e questo disprezzo diventa sempre maggiore nel pensiero moderno, non però per le preoccupazioni bibliche di Lutero, ma semplicemente per il ritorno dell’edonismo e del relativismo pagani. 
Il torto di Lutero è stato quello di infrangere quel ponte che la teologia medioevale aveva costruito fra il concetto pagano e quello cristiano di morale. Oggi che tanto si parla d’inculturazione, bisogna di nuovo ripensare come esprimere il concetto di fede della morale in quella che è la moderna comprensione umana e razionale della morale. Quello che possiamo constatare è la dissoluzione dell’etica razionale nel relativismo, fino a giungere al nichilismo. Più che mai dunque la fede ha oggi il compito di sanare e illuminare nel campo della morale le risorse della ragione col “fuoco che ci viene da Cristo”, per usare una felice espressione di Papa Francesco.
Dopo la stima mostrata da Kant per la legge morale, e il prometeismo dell’etica fichtiana, in Hegel, la Moralität rappresenta solo il momento dialettico astratto e iniziale dell’agire umano, che giunge alla sintesi solo nella Sittlichheit. Il morale comincia a diventare sinonimo di moralismo e farisaismo. Anche in Kierkegaard lo stadio etico non è ancora quello del “cavaliere della fede”. In Marx la morale è solo l’espediente dei padroni che cercano di impedire alla classe operaia, per mezzo di un alienante rimando a una consolazione ultraterrena, di far valere i suoi diritti. In Nietzsche addirittura la morale è l’esatto contrario di come l’uomo deve comportarsi per raggiungere lo stadio del superuomo.
Viceversa il magistero pontificio, soprattutto a partire da Pio XII, ha cercato di rivalutare un giusto concetto di etica naturale e di etica evangelica, con la dottrina della legge naturale, che è stata sviluppata dai Papi successivi sino ad oggi. Credo sia importante comprendere bene questi insegnamenti pontifici senza trascurare le parole del Card. Marx, che ci rimandano alla problematica suscitata per lo più da atei e non credenti, ma non necessariamente come segno di relativismo morale o di empietà, ma nella suddetta accezione negativa, la quale può in certi casi esser fatta propria anche dal cattolico.
 La cosa importante è tener presente che esiste una buona e una cattiva concezione della morale. Questo è tutto il succo del discorso. La buona morale è in perfetta linea col Vangelo e con la ragione naturale; quella cattiva è nemica del Vangelo e della sana ragione naturale.
Un’ultima osservazione. Indubbiamente, come dice il Cardinale l’insegnamento evangelico non si può riassumere in una dottrina morale, benchè essa sia essenziale. Cristo è venuto certo per dirci come dobbiamo comportarci con Dio e col prossimo, ma soprattutto è venuto a rivelarci ciò che Dio stesso vuol fare di noi: suoi figli diletti ad immagine del Figlio. 
In questo senso il Vangelo è più la narrazione di ciò che Dio vuol fare per l’uomo che non la prescrizione di ciò che l’uomo deve fare per Dio. Ora, se per morale intendiamo quest’attività dell’uomo, certamente la morale nel Vangelo passa in secondo piano ed emerge in primo piano l’amore di Dio per l’uomo, cosa completamente ignota alla morale classica, che non conosce questo agire dell’uomo in quanto figlio di Dio.

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