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di Luca Fumagalli
La penna di Hilaire Belloc, uno dei grandi della cultura cattolica d’inizio ‘900, sorprende sempre per raffinatezza e rigore. Due caratteristiche che rendono ogni suo saggio un’esperienza letteraria unica e mai banale. Tra racconti, libelli e articoli, la sua carriera brilla come una costellazione nella notte, una via sicura e certa per il pellegrino smarrito nelle tenebre del relativismo contemporaneo.
Questa luce è rintracciabile anche nel pregevole saggio Gli Ebrei, edito per la prima volta nel 1924 e riproposto dieci anni dopo in Italia, un libro che ha il pregio di affrontare con chiarezza e senza pregiudizi la cosiddetta “questione ebraica”. Anche se mostra il peso degli anni, il testo – ripubblicato nel 2012 per i tipi di Fede & Cultura – si presenta ancora oggi capace di
spiazzare e muovere alla riflessione il lettore sempre più assuefatto dal politically correct di stampo liberale. L’argomento – forse l’unico tabù socio-culturale ancora esistente – giace nascosto sotto un velo d’ipocrisia così spesso che, se appena appena qualcuno tenta di scostarlo, subito le erinni della gretta ignoranza sono pronte a suonare le sirene dell’indignazione e ad estrarre l’infamante etichetta di “antisemita”, un cartellino rosso che ha la triste facilità di accompagnare l’oppositore fuori dal campo di gioco, verso gli spogliatoi dell’oblio.
Al netto della metafora calcistica, Gli ebrei si presenta come uno spiraglio che permette di affrontare lo spinoso tema con la lucidità e la carità del cattolico, uno sguardo molto lontano dal gretto razzismo o, per citare lo stesso Belloc, dall’odio gratuito e pregiudiziale di quello che – con buona approssimazione e altrettanta dose di scorrettezza – si definisce comunemente “antisemita”.
L’autore si pone quindi l’ambizioso obiettivo di trovare una soluzione ad un problema che, con una straordinaria dote di preveggenza per l’epoca, considera “caldo” e foriero di immani tragedie se non affrontato tempestivamente.
Dopo una premessa generale sulla sostanziale diversità tra ebrei ed europei, prende le mosse un’appassionata dissertazione sulle possibili strade da percorrere per sanare questo vulnus. Come trovare una soluzione che garantisca la pacifica convivenza? Esclusa la via sionista – sostanzialmente inapplicabile e possibile causa di futuri scontri in Medio Oriente – e le soluzioni amorali o storicamente fallimentari, Belloc propone un programma di rivoluzione culturale tesa alla profonda e mutua comprensione tra i due popoli: lo scopo è la formazione di una legislazione speciale per salvaguardare l’incolumità fisica e culturale della minoranza. Belloc stesso chiama questo processo “riconoscimento”, la sola onesta posizione tra la noncuranza dei liberali e l’odio ottuso degli antisemiti.
Nelle 145 pagine del testo è dunque possibile scorgere tracce di quella che, all’epoca, era la posizione della Chiesa sull’argomento e, del resto, testimonianze in questo senso si recuperano facilmente sfogliando un qualsiasi numero della “Civiltà Cattolica” della prima metà del XX secolo. Siamo quindi molto distanti dall’attualità e, francamente, il confronto è impietoso. Il libro può quindi essere utile anche solo in questo senso, cioè quello di misurare la distanza che esiste tra la dottrina cattolica di sempre e quella del post-concilio: sorprende scoprire come da considerare gli ebrei un corpo estraneo d’Europa (secondo le parole di Belloc) si sia arrivati addirittura a parlare di radici giudaico-cristiane del continente. La sproporzione è evidente. Molto probabilmente lo stesso autore inglese sarebbe sorpreso di vedere com’è cambiato oggi il mondo. Quindi resta solo un’ultima domanda: chi ha ragione?
Articolo tratto da Radio Spada 8 luglio 2014
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