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di Paolo Nardi
Talvolta il mio lavoro mi mette a contatto con dei libri insospettabilmente belli, che magari, a causa della provenienza o dell’argomento trattato, non hanno la distribuzione e l’attenzione che meriterebbero. È il caso di questo Dio scende all’inferno, voluminoso libro (550 pagine) scritto da tal Marçel Hila e uscito qualche anno fa in Albania e pubblicato ora in Italia da Fede & Cultura dopo un lungo intervento di redazione a opera del sottoscritto. Sono ormai passati quasi due anni da quando l’ho letto per la prima volta e, oltre all’ovvia soddisfazione di vederlo finalmente stampato, devo ammettere che non ha perso niente della sua forza. Ambientato nel terribile carcere di Burrel durante l’efferato regime comunista di Enver Hoxha (sanguinario dittatore dell’Albania per 40 anni e responsabile, secondo le stime, di 25.000 esecuzioni politiche) e ispirato a fatti realmente
accaduti (una formula che però è così abusata da, me ne rendo conto, contare meno di zero), è un romanzo corale che descrive la mortificante vita di una serie di detenuti (dissenzienti, oppositori, intellettuali, contadini, ma anche ex sostenitori e partigiani) di varia estrazione sociale (c’è anche l’ex primo ministro Ibrahim Biçakçiu, realmente vittima del regime), compresi anche alcuni comunisti convinti caduti in disgrazia ed epurati dalla gerarchia in quanto pericolosi per quello di cui sono venuti a conoscenza o di cui sono stati testimoni. L’autore non prende in considerazione la vita di nessuno di loro nello specifico, ma fa emergere la loro personalità e il loro passato dai loro discorsi e dalle situazioni che si trovano a vivere in carcere, costretti a dormire in cameroni senza aria respirabile, ad andare in bagno una volta al giorno, a mangiare poco, a lavorare nel gelo e, soprattutto, a subire pestaggi indiscriminati e ogni sorta di angheria da parte delle spietate guardie del regime. Piuttosto lontano dagli stereotipi del filone carcerario all’americana (ragion per cui, per fortuna, non troviamo il detenuto modello come protagonista, quello gay, il bastardo capoclan, il secondino dal cuore d’oro e il direttore psicopatico) e, contemporaneamente, diverso da film come Le vite degli altri (che vede un agente convinto della Stasi nella Germania dell’Est convertirsi al cambiamento dall’interno), il romanzo cuce la vita di questi poveri detenuti intorno a una sorta di trama principale, la vicenda personale di un povero montanaro, Gjelosh Gjeto Kola, traumatizzato per essere stato arrestato, torturato e rinchiuso come nemico del regime senza riguardo per la sua età e, soprattutto, perché la denuncia è arrivata da suo figlio Ndoja: convinto di aver perso ogni onore, inizialmente il povero Gjelosh si rifiuta di legare con gli altri detenuti ed è deciso a lasciarsi morire di consunzione, ma poi viene aiutato e confortato dall’intervento di un santo sacerdote gesuita, Padre Anton Luli, il quale, sull’esempio di Gesù Cristo, ha parole di conforto per lui e di pietà per il figlio, spingendo in ogni modo il povero montanaro a valutare i rischi (soprattutto per Ndoja) di un comportamento orgoglioso e sordo al perdono. Così il vecchio inizia a vivere nella speranza di rivedere il figlio e di riconciliarsi con lui di persona, ma naturalmente questo non può essere accettato dal regime comunista che tenta in tutti i modi di impedirglielo: i funzionari di partito prima cercano di sviare il figlio con una denuncia pubblica (e fasulla) nei confronti di un altro sacerdote, poi passano alle minacce e alle menzogne (gli riferiscono che questa storia dell’incontro di riconciliazione è frutto di un’invenzione perché in realtà il padre lo sta aspettando per sputargli in faccia davanti a tutti e che Padre Anton è in realtà una spia del regime). Si respira una vera e propria atmosfera di squallore esistenziale, con un regime onnipresente e onnipervasivo che decide di perseguitare le persone in base a una logica imperscrutabile, odia le religioni e sa tutto di tutti grazie a un’efficace rete di ricatti e di spie (singolare che ci sia una spia in ogni camerata della prigione): come se non bastasse, fa ricorso alla punizione, alla violenza e all’umiliazione per fiaccare le personalità, e per questo nel romanzo non mancano scene di violenza, fisica e verbale, con pestaggi, intimidazioni e insulti, che funzionano molto bene per ricostruire l’atmosfera maledetta del carcere e l’abiezione morale dei suoi funzionari. L’unica luce in questa situazione desolata è l’esempio di santità offerto dai sacerdoti perseguitati, che restano saldi nelle loro azioni, non rispondono al male e all’ingiustizia ma sono sempre pronti a offrire il fianco ai pestaggi, il conforto spirituale ai sofferenti e il perdono ai persecutori (singolare che il romanzo si chiuda con Padre Anton che, dopo la caduta del regime, ritrova per strada uno dei suoi persecutori e lo abbraccia dicendo di averlo perdonato), prospettiva diametralmente opposta a quella del lettore che invece da subito è portato a nutrire odio per il regime comunista e vorrebbe fare giustizia sommaria dei carnefici. Questo rende Dio scende all’inferno un romanzo profondamente cristiano: su tutto aleggia la dichiarata convinzione che il regime in Albania sia stato la giusta conseguenza dell’apostasia del popolo albanese (cominciata con l’accettazione da parte dei cattolici di chiamare i figli con nomi musulmani sotto la dominazione ottomana in cambio di facilitazioni, cosa già denunciata dal papa Benedetto XIV), ma mai nelle parole del sacerdote protagonista mancano il senso del martirio a cui i credenti sono chiamati per salvare il mondo e la speranza di un futuro luminoso. Non mancano diatribe filosofiche e interessanti intuizioni sull’animo umano, come il racconto che Padre Anton fa di un funzionario di partito che si diceva in prima persona stupito del livello di violenza da lui raggiunto e che vedeva come questo fosse portato ad aumentare, in una spirale di violenza senza fine. Per il resto, grandissimo spazio (e qualche lungaggine, non lo nego) è dedicato alla storia albanese: i dialoghi tra i personaggi (e le loro storie personali) servono per raccontare le malefatte di Enver Hoxha, i dissidi interni al partito, il Dopoguerra, le tradizioni e la letteratura locali. Potrebbe addirittura rivelarsi interessante.
accaduti (una formula che però è così abusata da, me ne rendo conto, contare meno di zero), è un romanzo corale che descrive la mortificante vita di una serie di detenuti (dissenzienti, oppositori, intellettuali, contadini, ma anche ex sostenitori e partigiani) di varia estrazione sociale (c’è anche l’ex primo ministro Ibrahim Biçakçiu, realmente vittima del regime), compresi anche alcuni comunisti convinti caduti in disgrazia ed epurati dalla gerarchia in quanto pericolosi per quello di cui sono venuti a conoscenza o di cui sono stati testimoni. L’autore non prende in considerazione la vita di nessuno di loro nello specifico, ma fa emergere la loro personalità e il loro passato dai loro discorsi e dalle situazioni che si trovano a vivere in carcere, costretti a dormire in cameroni senza aria respirabile, ad andare in bagno una volta al giorno, a mangiare poco, a lavorare nel gelo e, soprattutto, a subire pestaggi indiscriminati e ogni sorta di angheria da parte delle spietate guardie del regime. Piuttosto lontano dagli stereotipi del filone carcerario all’americana (ragion per cui, per fortuna, non troviamo il detenuto modello come protagonista, quello gay, il bastardo capoclan, il secondino dal cuore d’oro e il direttore psicopatico) e, contemporaneamente, diverso da film come Le vite degli altri (che vede un agente convinto della Stasi nella Germania dell’Est convertirsi al cambiamento dall’interno), il romanzo cuce la vita di questi poveri detenuti intorno a una sorta di trama principale, la vicenda personale di un povero montanaro, Gjelosh Gjeto Kola, traumatizzato per essere stato arrestato, torturato e rinchiuso come nemico del regime senza riguardo per la sua età e, soprattutto, perché la denuncia è arrivata da suo figlio Ndoja: convinto di aver perso ogni onore, inizialmente il povero Gjelosh si rifiuta di legare con gli altri detenuti ed è deciso a lasciarsi morire di consunzione, ma poi viene aiutato e confortato dall’intervento di un santo sacerdote gesuita, Padre Anton Luli, il quale, sull’esempio di Gesù Cristo, ha parole di conforto per lui e di pietà per il figlio, spingendo in ogni modo il povero montanaro a valutare i rischi (soprattutto per Ndoja) di un comportamento orgoglioso e sordo al perdono. Così il vecchio inizia a vivere nella speranza di rivedere il figlio e di riconciliarsi con lui di persona, ma naturalmente questo non può essere accettato dal regime comunista che tenta in tutti i modi di impedirglielo: i funzionari di partito prima cercano di sviare il figlio con una denuncia pubblica (e fasulla) nei confronti di un altro sacerdote, poi passano alle minacce e alle menzogne (gli riferiscono che questa storia dell’incontro di riconciliazione è frutto di un’invenzione perché in realtà il padre lo sta aspettando per sputargli in faccia davanti a tutti e che Padre Anton è in realtà una spia del regime). Si respira una vera e propria atmosfera di squallore esistenziale, con un regime onnipresente e onnipervasivo che decide di perseguitare le persone in base a una logica imperscrutabile, odia le religioni e sa tutto di tutti grazie a un’efficace rete di ricatti e di spie (singolare che ci sia una spia in ogni camerata della prigione): come se non bastasse, fa ricorso alla punizione, alla violenza e all’umiliazione per fiaccare le personalità, e per questo nel romanzo non mancano scene di violenza, fisica e verbale, con pestaggi, intimidazioni e insulti, che funzionano molto bene per ricostruire l’atmosfera maledetta del carcere e l’abiezione morale dei suoi funzionari. L’unica luce in questa situazione desolata è l’esempio di santità offerto dai sacerdoti perseguitati, che restano saldi nelle loro azioni, non rispondono al male e all’ingiustizia ma sono sempre pronti a offrire il fianco ai pestaggi, il conforto spirituale ai sofferenti e il perdono ai persecutori (singolare che il romanzo si chiuda con Padre Anton che, dopo la caduta del regime, ritrova per strada uno dei suoi persecutori e lo abbraccia dicendo di averlo perdonato), prospettiva diametralmente opposta a quella del lettore che invece da subito è portato a nutrire odio per il regime comunista e vorrebbe fare giustizia sommaria dei carnefici. Questo rende Dio scende all’inferno un romanzo profondamente cristiano: su tutto aleggia la dichiarata convinzione che il regime in Albania sia stato la giusta conseguenza dell’apostasia del popolo albanese (cominciata con l’accettazione da parte dei cattolici di chiamare i figli con nomi musulmani sotto la dominazione ottomana in cambio di facilitazioni, cosa già denunciata dal papa Benedetto XIV), ma mai nelle parole del sacerdote protagonista mancano il senso del martirio a cui i credenti sono chiamati per salvare il mondo e la speranza di un futuro luminoso. Non mancano diatribe filosofiche e interessanti intuizioni sull’animo umano, come il racconto che Padre Anton fa di un funzionario di partito che si diceva in prima persona stupito del livello di violenza da lui raggiunto e che vedeva come questo fosse portato ad aumentare, in una spirale di violenza senza fine. Per il resto, grandissimo spazio (e qualche lungaggine, non lo nego) è dedicato alla storia albanese: i dialoghi tra i personaggi (e le loro storie personali) servono per raccontare le malefatte di Enver Hoxha, i dissidi interni al partito, il Dopoguerra, le tradizioni e la letteratura locali. Potrebbe addirittura rivelarsi interessante.
Recensione tratta da La Spelonca del libro 18 marzo 2014
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