di Giovanni Cavalcoli
L’Ordine Domenicano, nell’intento di applicare le direttive pastorali del Concilio Vaticano II, ha fatto una svolta notevole rispetto al suo tradizionale interesse per i temi dottrinali e le controversie teologiche, che sin dagli inizi hanno caratterizzato il suo ruolo nella Chiesa con alterne vicende, alcune delle quali sfortunate, tali da procurargli la fama di
aspra intransigenza dottrinale legata al servizio del potere ecclesiastico e civile, nonché di frenare il progresso della scienza e della cultura a causa dell’attaccamento ad un rigido conservatorismo intellettuale.
L’Ordine Domenicano, nell’intento di applicare le direttive pastorali del Concilio Vaticano II, ha fatto una svolta notevole rispetto al suo tradizionale interesse per i temi dottrinali e le controversie teologiche, che sin dagli inizi hanno caratterizzato il suo ruolo nella Chiesa con alterne vicende, alcune delle quali sfortunate, tali da procurargli la fama di
aspra intransigenza dottrinale legata al servizio del potere ecclesiastico e civile, nonché di frenare il progresso della scienza e della cultura a causa dell’attaccamento ad un rigido conservatorismo intellettuale.
Così
l’Ordine ha sentito il bisogno di scrollarsi di dosso con la massima decisione quell’infausta
nomea avviando un rinnovamento secondo quelle direttive conciliari, che
caldeggiavano una maggiore attenzione alle vaste aree di umanità afflitte dalla
miseria e dalla povertà, sfruttate da poteri egoisti o tirannici, non senza a
volte la connivenza di ambienti ecclesiali, masse sofferenti assetate di
giustizia e di pace; il grande tema della misericordia, che anima e percorre
tutti gli insegnamenti del Concilio. Si è allora sentito il dovere in nome del
Vangelo di collaborare fattivamente all’avanzamento sociale promosso dal
Concilio, con una maggiore sensibilità e un più concreto impegno a favore dei
poveri e per la soluzione dei grandi e drammatici problemi dell’umanità
contemporanea.
La
canonizzazione, negli anni seguenti al Concilio, di S. Martin de Porres e S. Giovanni
Macìas, umili fratelli cooperatori sudamericani del sec. XVII, grandemente
benemeriti nell’assistenza sociale, è significativa di questo mutato
orientamento, il quale, più che guardare ai grandi teologi, che pur non
mancavano, ha preferito volgere lo sguardo a questi esempi di indubbia carità,
da sempre del resto esercitata dall’Ordine, tuttavia scostandosi da quel carisma
dottrinale e sapienziale che sarebbe più proprio dell’Ordine, ed è sorgente di
santità non meno dell’esercizio dell’assistenza
ai poveri e ai bisognosi.
Quest’
attenzione si è rivolta in modo particolare alle situazioni del mondo
occidentale, come per esempio l’America Latina, mentre nel blocco sovietico,
dominato dal comunismo, considerando la durezza delle dittature colà esistenti
e i limitati spazi di libertà della Chiesa, i Domenicani dovevano rassegnarsi a
sopportare il giogo comunista o capitava che qualcuno fortunosamente si
rifugiava in occidente, come fece il Servo di Dio Padre Tomas Tyn, fuggendo
dalla sua patria la Cecoslovacchia e trovando rifugio prima in Francia, poi in
Germania ed infine in Italia.
Tuttavia,
un difetto in quest’opera di riforma è stato che non si è tenuto conto
abbastanza del fatto che il Concilio non aveva solo un carattere pastorale e
missionario orientato a presentare il messaggio evangelico in modo adatto,
persuasivo convincente per l’uomo d’oggi, instaurando un dialogo con tutti gli
uomini di buona volontà, anche non credenti, ma offriva anche un poderoso corpo dottrinale su vari temi
di fondamentale importanza, come la divina Rivelazione, la Chiesa, la santità,
la liturgia, l’uomo, la morale, i valori del mondo contemporaneo, l’unità dei
cristiani, le altre religioni, la libertà religiosa, la ricerca della giustizia
e della pace, la costruzione di una società internazionale fondata sugli
universali diritti dell’uomo.
Tale
patrimonio dottrinale alla cui elaborazione avevano contribuito alcuni periti
Domenicani, come Congar, Philippe, Browne, Ciappi, Hamer, Chenu, avrebbe dovuto
attirare l’attenzione dei Domenicani, in linea con la loro tradizione dottrinale.
E invece bisogna dire che essi non hanno tratto da esso quegli sviluppi che avrebbero
potuto trarre e soprattutto l’hanno interpretato in un senso modernista, seguendo
le orme del noto perito del Concilio, il Domenicano Edward Schillebeeckx.
Inoltre,
sono apparse due interpretazioni del Concilio: alcuni vi hanno visto la
promozione di un pacifico ed utopistico dialogo
universale con l’insistenza sulla misericordia, la rinuncia ad ogni
severità, ad ogni condanna, ad ogni attitudine polemica e ad ogni uso della
forza o della coercizione: tutti sono in grazia, tutti sono salvi, tutti in
fondo sono buoni, tutti segretamente tendono a Dio (“cristiani anonimi”), anche
gli atei. Si è quindi parlato del “Concilio del dialogo” e ciò ha dato luogo al
buonismo rahneriano. Chiesa e mondo vanno d’accordo.
Altri
invece hanno visto nel Concilio, sulla base di un sfondo culturale
evoluzionista e storicista (vedi Hegel) un evento
rivoluzionario, simile alla Rivoluzione francese, una specie di
palingenesi, un rinnovamento ed avanzamento radicali di tutta la vita cristiana,
il progetto di una nuova Chiesa finalmente evangelica, la Chiesa della “nuova
Pentecoste”, dello Spirito e della profezia (Dossetti), popolare e non gerarchica
(“piramidale”), la Chiesa della “modernità” in rotta con la Chiesa tridentina e
preconciliare, legata alla religione di stato ed all’era costantiniana (Scuola
di Bologna), l’avvento di una nuova umanità nella quale, grazie alla
fondamentale bontà dell’uomo liberato da Cristo, saranno sconfitte in questo mondo, non in un mondo futuro,
tutte le ingiustizie (Rousseau, massoneria). Il futuro è adesso, ma occorre
vincere la reazione e i residui del passato.
La
prima interpretazione ha dato luogo al dialogismo e pacifismo soggettivisti,
relativisti e indifferentisti, che rifiutano il primato del cristianesimo sulle
altre religioni, cedono al lassismo morale, predicano un’etica dolorista e masochista
(il “Dio che soffre”), che, con la scusa della “carità”, rinuncia alla lotta, non
si ribella alle ingiustizie e alle prepotenze per difendere degli oppressi.
La
seconda invece concepisce sì un cristianesimo militante per la liberazione
dell’uomo – la “teologia della liberazione”[1] – ma in un orizzonte meramente
terreno, dove la liberazione evangelica si riduce all’elemento sociale, economico
e politico, ignorando le conseguenze del peccato originale, la schiavitù del peccato,
della menzogna ereticale, delle insidie del demonio per una lotta priva di prospettive
ultraterrene, meramente mondana, con mezzi esclusivamente politici o
addirittura militari, senza quindi disdegnare il ricorso alla violenza e all’illegalità,
nella convinzione che i ricchi possono cedere i beni ingiustamente da loro
trattenuti, solo se costretti con la forza. La Chiesa Romana è considerata come
compromessa con lo strapotere delle multinazionali, soprattutto gli Stati
Uniti.
L’accento
viene messo più sulla liberazione che
sulla redenzione. Il concetto di “redenzione”,
con l’idea implicita di “espiazione” o “soddisfazione vicaria”, viene malvisto
come mito arcaico e si preferisce vedere Gesù solo come liberatore. Ma ciò forse
inavvertitamente sminuisce l’opera della salvezza, perché non si suppone più un
uomo che sfugge alla morte (questo è
ciò che implica la salvezza), ma semplicemente un uomo già vitalmente costituito
in essere, che solo ha bisogno di essere liberato o forse meglio di liberarsi
sia pure con l’aiuto di Dio.
In tal modo si perde di vista il concetto di peccato come causa di morte, mentre tutto
il problema si riduce a liberare dai ricchi i poveri da loro sfruttati. La
grazia non è più dono divino che ridà la vita, ma forza divina intrinseca alla
classe oppressa che si libera dal giogo dei potenti. Tutto ciò acquista un vago
sapore pelagiano.
Il
vero Vangelo, fattore decisivo della liberazione, nella visuale predetta, non è
un dato dottrinale oggettivo, sovrastorico, astratto e immutabile, perché la verità
non precede l’azione, ma emerge dall’azione concreta collettiva, dall’esperienza
stessa della lotta rivoluzionaria ed è di volta in volta suggerita, in una
continua evoluzione, dal contesto socio-politico. La Chiesa non sorge dall’alto
della Gerarchia ma dal basso, dal popolo (Iglesia
popular).
Dio non è nel cielo ma nel popolo che lotta
per la sua liberazione. È il Dio disceso dal cielo ed incarnato nella storia, è
Cristo, soprattutto nei poveri e negli oppressi. La liturgia non è grazia che
scende dall’alto, ma forza divina immanente al popolo che simbolicamente nei
sacramenti rappresenta il processo storico della sua liberazione, che è
liberazione dell’intera umanità, in quanto gli stessi oppressori vengono
liberati dal loro egoismo.
Ma
questa visuale ristretta e secolarizzata fa sì che si perda di vista l’universalità
e l’oggettività della verità del Vangelo custodita dal Magistero della Chiesa,
e la si mutili o cambi a seconda degli interessi contingenti dell’azione
sociale o della rivoluzione e per questo i liberazionisti guardano con diffidenza
la dottrina sociale della Chiesa, la quale si presenta come universale e trascendente
lo spazio-tempo, ed adatta a tutte le situazioni di ingiustizia o di degradazione
della persona umana o di offesa al bene comune.
Secondo
la frangia più estremista della teologia della liberazione, influenzata dal marxismo,
per ottenere la liberazione dell’uomo e una società giusta e pacifica, sarebbe
sufficiente organizzare una rivoluzione sociale e politica, tale da abbattere
il governo tirannico, espropriare con la forza i capitalisti del possesso privato
dei mezzi di produzione e mettere tali mezzi a disposizione del popolo e dei
lavoratori.
Per
il fondatore della teologia della liberazione Gustavo Gutierrez, oggi
appartenente all’Ordine domenicano, come pure per il teologo domenicano Albert
Nolan, non esiste un altro mondo al di là di questo, per cui lo scopo del cristianesimo
sarebbe semplicemente portare la felicità in questo mondo. La stessa tesi è
sostenuta da un altro famoso teologo domenicano, Edward Schillebeeckx.
Com’è
noto, negli anni immediatamente seguenti il Concilio, si sviluppò un’irrefrenabile
agitazione e una euforia rivoluzionaria, a cominciare dagli ambienti
universitari ma poi estesasi a tutti i ceti bassi della società, invase anche le
scuole, i seminari, gli insegnanti, i teologi, i moralisti, il clero e gli studenti
degli istituti religiosi, con la conseguenza, nel corso di qualche decennio, di
decine di migliaia di defezioni di preti e religiosi. Rivoluzione in occidente
contro le oligarchie economiche, culturali ed ecclesiali conservatrici,
rivoluzione in Cecoslovacchia contro il comunismo.
L’Ordine
domenicano, contagiato da questo conturbante fenomeno che certo non era privo di aspetti positivi, e che in parte
era stato ispirato da alcuni suoi teologi neomodernisti, preso da un eccessivo
e non sempre prudente fervore di cambiamento, e suggestionato da falsi maestri –
si pensi solo al fenomeno del ’68, immediatamente preceduto dalla contestazione
studentesca all’Università Americana di Berkeley –, nella sua opera di rottura con
un passato che bisognava abbandonare, ha finito col dimenticare o rifiutare
anche usi, idee, tradizioni e valori che invece trovavano le loro radici nella
stessa identità domenicana, con tutti
i meriti storici che da ciò provenivano e quindi ancora avrebbero dovuto provenire.
La
predicazione domenicana ha sempre avuto una forte carica riformatrice, senza che
fosse necessario ai frati immischiarsi nelle lotte e contese politiche, né tanto
meno accondiscendere a forze sovversive che tentano di cambiare la società con
la violenza. Non si contano lungo i secoli i grandi predicatori della giustizia
e della pace, grandi benefattori della Chiesa e della società, tanto per fare
pochi nomi, come un S. Raimondo di Peñafort nel sec.XIII, una S. Caterina da
Siena nel sec. XIV, un S. Antonino da Firenze o un Savonarola nel sec.XV, un
Francisco de Vitoria, un Bartolomeo Las Casas o un Montesinos nel sec.XVI, un S.
Martìn de Porres o un S. Giovanni Macìas nel sec.XVII, un S. Francisco Coll nel
sec.XIX, un Beato Giuseppe Lataste o un Beato Giuseppe Girotti nel secolo
scorso, fino a giungere, sono disposto a riconoscerlo, alla testimonianza coraggiosa
del Padre Giorgio Callegari[2].
Il
Padre Callegari (1936-2003), di origine veneziana, fu missionario in Brasile a cominciare
dalla fine degli anni ’60, durante il periodo di una crudele dittatura militare,
che sospettava o accusava pretestuosamente di “comunismo” tutti coloro che operassero
o lottassero per la eliminazione delle gravi ingiustizie sociali in atto nel paese,
per la cessazione delle crudeltà commesse dalla polizia, che non si arrestava
neppure davanti alla tortura ed alla soppressione dei nemici del regime.
In
realtà nel paese l’influsso comunista (della stessa Russia sovietica) non era
assente, come è testimoniato per esempio dall’attività di alcuni guerriglieri
come Carlos Marighella ed Alves Coqueiro, con i quali Padre Callegari era in amicizia.
Questo destò gravi sospetti su di lui e gli causò l’accusa di “comunismo” e
sovversivismo da parte dell’autorità, sicchè egli fu imprigionato per più di un
anno dal 1969 al 1970 e subì la tortura.
Nel 1968
Paolo VI aveva pubblicato l’enciclica Populorum
Progressio, dove ammetteva la liceità della rivoluzione in specialissime
circostanze, ma evidentemente non poteva ammettere che il fine della rivoluzione
potesse essere la società comunista. Liberarsi dal regime dittatoriale
brasiliano poteva essere un buon intento, ma occorreva guardarsi da contatti
con la guerriglia comunista. Viceversa il regime sovietico e la stessa
esperienza di Cuba con Castro dimostravano che il comunismo al potere sopprime
la libertà. E fu proprio per ottenere questa libertà che il Servo di Dio Padre
Tomas Tyn dette la propria vita.
Può
esser che Padre Giorgio sia stato imprudente e fosse un po’ infetto dall’ideologia
rivoluzionaria, come del resto anche altri Domenicani brasiliani, ma la sua intenzione
di fondo era quella del sacerdote domenicano, desideroso di operare fattivamente
per il riscatto dei poveri e degli oppressi. Abbiamo su di lui ottime referenze
di quando era ancora giovane a Venezia, prima che entrasse nell’Ordine, sia da
parte del Patriarca Albino Luciani che del Segretario della Democrazia Cristiana,
come di cristiano convinto, generoso ed anticomunista.
Nella
sua condotta sociale degli anni 1967-1971 vi sono zone d’ombra che andrebbero
chiarite, mentre poi negli anni successivi si nota un crescendo di dedizione autentica
e generosa alla causa dei poveri, soprattutto bambini bisognosi, tanto che, per
merito suo e dei suoi collaboratori in Brasile esistono diverse istituzioni ben
funzionanti al sevizio di questi piccoli esseri umani.
Ad
ogni modo, pur manifestando qui tutta la nostra riconoscenza e ammirazione per
l’opera di questi Domenicani, l’Ordine non deve dimenticare il taglio intellettuale
e teologico della spiritualità e della missione domenicane, così strettamente legate
alla tematica e alla problematica della purezza, della difesa e della diffusione
della fede, soprattutto in rapporto alla cultura e alle scienze umane, fino a
giungere ai problemi della società, della giustizia e della pace, ma senza che
questi ultimi debbano campeggiare in modo unilaterale e fazioso, soprattutto se
in contrasto o in polemica che i valori tradizionali, come per esempio l’ossequio
sempre prestato alla dottrina di S.Tommaso d’Aquino, che è del resto raccomandato
dallo stesso Concilio. Per cui sorgeva il paradosso di un Ordine domenicano, privilegiato
responsabile di offrire a tutta la Chiesa la sapienza dell’Aquinate, il quale
Ordine, per un malinteso modo di attuare il Concilio, finiva per emarginare quello
stesso S. Tommaso che era raccomandato dal Concilio!
Resta
da dire in conclusione che l’Ordine domenicano entra nel novero di quegli istituti
religiosi che hanno tentato di realizzare l’opera riformatrice del Concilio,
ma, a causa di un’esagerata reazione nei confronti di un passato imbarazzante,
e nell’intento di acquisire ciò che mancava, superando un ristagno
intellettuale per lanciarsi verso nuove conquiste, hanno finito per sbilanciarsi
in un senso opposto, di tipo modernista, tanto che oggi occorre urgentemente correggere il tiro, per imboccare finalmente
la strada giusta ed equilibrata, di sintesi o mediazione tra gli estremi, ma da
essi equidistante, quella veramente voluta dal Concilio e non da una sua falsa interpretazione
modernista o scillebexiana o liberazionista.
Occorre
pertanto che l’Ordine ritrovi la sua tradizionale funzione di zelante predicatore
e diffusore della fede e coraggioso oppositore dell’eresia, con fedeltà cristallina
e assoluta al Magistero della Chiesa. Sua speciale missione, come recita il
motto Veritas nel suo stemma, è
quella di promuove la sapienza e la ricerca teologica, di stimolare ed educare
negli uomini l’amore per la verità e la ricerca di Dio. È poi dalla verità che
discendono tutte le altre virtù e i valori dell’uomo: la giustizia, la bontà, la
libertà, la pace, il culto divino, la salvezza.
Per
esempio, la promozione della Causa di Beatificazione del Servo di Dio Padre
Tomas Tyn, martire del comunismo, fedelissimo al Magistero della Chiesa e a S. Tommaso,
vigoroso e dotto assertore dei valori perenni della tradizione pur nella piena
fedeltà al Concilio Vaticano II, potrebbe servire a mio giudizio a favorire una
linea di equilibrio ed imparzialità nei confronti degli opposti estremismi, che
oggi stanno lacerando la Chiesa, secondo
quell’alta missione di pace e conciliazione fondata
sulla verità, che l’Ordine ha sempre
esercitato lungo i secoli.
Il
Concilio ha richiamato gli istituti religiosi alla riscoperta del loro proprio
carisma, senza invadere il campo degli altri, senza dilettantismi o approssimazioni,
ma con impegno e competenza, ognuno al suo posto, come si conviene in una società
ordinata e pacifica, quale dev’essere la Chiesa.
Non
si devono fare cose per le quali non si è istituzionalmente attrezzati. I Domenicani
non possono sostituire l’Ordine di S. Camillo o l’Opera della Santa Teresa di Calcutta
o l’Ordine dei Mercedari. Certo l’uomo non vive senza il “pane che perisce”, ma
vive ancor più di “ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
L’uomo
certo vive di pane materiale, ma anche ed ancor più del pane della Parola di
Dio. Ingiustizia non è solo essere oppressi economicamente, ma anche essere privati
della verità salvifica perché ingannati da impostori o da eretici. La pace non
nasce solo dalla pancia piena, ma anche dal cuore pieno di Dio, e da una coscienza
retta ed illuminata dalla verità.
E
si deve dire che tra tutti gli istituti religiosi, nessuno tanto quanto quello
Domenicano, sia per il suo programma istituzionale approvato dalla Chiesa, sia per
la sua lunga storia ed esperienza, sia per i mezzi istituzionali dei quali dispone,
è attrezzato in modo così eccellente per svolgere il compito di cui sopra. Se
il Domenicano non fa il proprio dovere è come se in un organismo non funzionasse
un organo vitale. Qualcun altro dovrà prendere il suo posto. Ma per quale
motivo?
NOTE
[1] Cf la critica contenuta nell’Istruzione
della Congregazione per la Dottrina della
Fede del 1984.
[2] Lettere
dl Tiradentes, a cura di Mariano Foralosso, OP, Pubblicazione di Arco
Acuto, dell’Associazione Amici Colonia Venezia
di Peruibe, San Pantalon 3703, Venezia 2013.
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