di Giovanni Cavalcoli
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Il rahnerismo che da cinquant’anni ormai circola pressoché liberamente dovunque, continuando a mietere un successo difficilmente spiegabile, nonostante gli amari frutti che produce , senza significative resistenze, negli ambienti ecclesiali e negli stessi istituti accademici della Chiesa come una specie di smog, al quale molti si sono assuefatti credendolo ormai una specie di dottrina corrente al posto della sapienza tomista, dopo aver circolato in ristretti ambienti teologici nell’immediato postconcilio col suo caratteristico linguaggio esoterico e stile contorto, poiché poteva tradursi senza troppa difficoltà in termini popolari, questo è avvenuto per opera di una folta schiera di divulgatori e volgarizzatori, che
hanno diffuso a piene mani la dolce droga, ossia l’eresia rahneriana, certi del successo che di fatti non è mancato, sicché oggi ci troviamo in una situazione irrimediabile dal punto di vista umano ed alla quale potrà porre fine, non sappiamo come e quando, solo una potente ventata di Spirito Santo, una vera Pentecoste che purifichi l’aria e spazzi via i miasmi seducenti che stanno avvelenando le anime. Ma intanto facciamo la nostra parte per non lasciarci contaminare e per aprire gli occhi a chi vuol vedere la luce, se non subirò la vendetta dei rahneriani, come probabilmente sta capitando ai Francescani dell’Immacolata.
La letteratura critica nei confronti di Rahner certo non manca, ma spesso si tratta solo di saggi o modeste vedute di insieme, anche se non mancano gli studi approfonditi, come per esempio le tesi di dottorato degli istituti accademici. Mi permetto di ricordare al riguardo il mio libro , l’unico che mi risulti finora, che svolga una critica complessiva al suo sistema. Ad esso rimando per approfondimenti, dove si troveranno molte citazioni di testi, cosa della quale risparmio qui il lettore per limitarmi ad una breve trattazione di uno dei temi fondamentali della teologia rahneriana: il tema della grazia, argomento di primario interesse per la vita cristiana di tutti i giorni.
Uno dei paradossi più noti del pensiero rahneriano è che in esso la grazia è ad un tempo “gratuita” ed “obbligatoria”, cioè Dio fa necessariamente grazia a tutti perché salva tutti e perdona a tutti in forza della sua misericordia, ma nel contempo resta che la grazia è un dono soprannaturale, anzi è Dio stesso che “si autocomunica” all’uomo. Rahner non nega che la grazia trascenda la natura: essa viene da Dio e in tal senso è gratuita. È attuazione di quella che già S.Tommaso chiama “potenza obbedienziale”, ossia disponibilità della natura ed essere elevata alla vita divina della grazia.
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Sennonché però per Rahner la grazia non si aggiunge alla natura come qualità creata, contingente e che può essere perduta. La grazia per lui è attuazione terminale della natura e la natura non è altro che la possibilità della grazia. La potenza obbedienziale non si aggiunge a una natura già ontologicamente costituita con un fine suo proprio - il Dio della ragione -, ma è solo la natura in quanto aperta al suo fine ultimo soprannaturale - il Dio della fede -.
Per Rahner non esiste un fine ultimo naturale dell’uomo, concepito come Dio, ma la natura aspira essenzialmente al soprannaturale; si “trascende” attivamente nel soprannaturale, ossia in Dio stesso oggetto della rivelazione cristiana. La grazia non è acquistata e non si perde, perché è costitutiva dell’uomo, è un “esistenziale soprannaturale”, per cui per Rahner è impensabile un uomo senza la grazia: non sarebbe uomo o quanto meno non sarebbe uomo completo.
Nell’uomo rahneriano, tutto irresistibilmente proteso verso Dio, quasi fosse un serafino del primo coro angelico, non c’è spazio per la grazia sanante, ma solo per quella elevante. Manca quindi la percezione di una natura umana, che pur rimasta sostanzialmente inclinata al bene anche dopo la colpa originale, tuttavia è ferita da questa colpa ed è inclinata anche al peccato (il fomes peccati), per cui senza la grazia sanante non può venirne fuori.
Ma in tal modo, a causa di questa fiacca attenzione nei confronti del peccato, quasi scompare il senso del peccato, tanto più che per Rahner il racconto genesiaco della caduta non è storico ma solo mitologico (“eziologico”). Ma ecco che allora questa nefasta svalutazione della serietà del peccato finisce per capovolgere quest’uomo angelicato in un essere di fatto corrotto e corruttore, che, per il suo relativismo lassista, non dà più importanza neanche al peccato grave, ma che non per questo rinuncia a considerarsi come tutto di Dio o addirittura un mistico, nell’autotrascendenza verso l’infinità ineffabile del Mistero.
Anche il peccatore per Rahner è in grazia, come già troviamo in Lutero. Come per costui basta la “fede”, per Rahner basta l’“esperienza trascendentale”, che poi alla fine anche per Rahner è la fede. Il problema di perdere la grazia quindi non esiste. La grazia è sempre presente nell’esperienza trascendentale preconcettuale, inconscia e atematica (“cristianesimo anonimo”): basta solo prenderne coscienza. In tal senso la grazia è un’esigenza, un bisogno, una necessità, un diritto della natura, è necessaria perché l’uomo sia uomo, per cui Dio è obbligato a darla.
Ricevere misericordia è un diritto e Dio sarebbe ingiusto se non facesse misericordia. Dio non castiga e non esige nessuna riparazione o espiazione, ma fa misericordia a tutti gratuitamente, nel senso che non occorrono opere riparatrici, e neppure è necessario il pentimento perché il peccato è inevitabile, ma più forte è la grazia. Il peccato si distrugge da sè per la sua intima contraddizione.
La funzione di Cristo quindi non è quella di compiere un sacrificio espiatorio o una “soddisfazione vicaria” presso il Padre, ma solo quella di rappresentare il vertice dell’umanità che partendo dal basso della natura e del mondo si trascende sino al livello della divinità, così come nel contempo rappresenta quell’umanità nella quale Dio è divenuto uomo, e divenuto, si badi bene, proprio nel senso di una mutazione della natura divina, la quale, in quanto divina, avrebbe nel contempo il potere di restare immutabile. Come possa avvenire questo prodigio, neppure Rahner lo sa. In Cristo Dio soffre, muore e risorge non solo come uomo ma anche come Dio.
Per Rahner Cristo è certamente Dio, ma semplicemente per il fatto che l’uomo come tale in quanto è in grazia, è potenzialmente Dio in forza dell’esperienza trascendentale e dell’opzione fondamentale. I sacramenti non sono mezzi della grazia e non producono la grazia, ma sono segni e simboli del possesso già trascendentalmente presente della grazia. La liturgia non è azione di Cristo che intercede presso il Padre per ottenerci la grazia, ma è manifestazione esteriore e simbolica della grazia già atematicamente presente nel credente. In essa non si deve vedere un sacro elevato al di sopra del profano, ma un profano che come tale è già sacro. Così pure la Chiesa non è altro che l’apparire storico-socio-categoriale dell’esperienza trascendentale soprannaturale collettiva dell’umanità (cristiani anonimi).
La grazia non è necessaria nel senso di riparare la natura (la classica gratia sanans), ma nel senso di completare la natura elevandola a Dio, “orizzonte della trascendenza umana”. La natura non ha bisogno di essere corretta od obbedita, perché essa non ha limiti certi, definiti e fissi, ma non è altro che un materiale indeterminato e plasmabile a disposizione della libera attività o iniziativa della persona (per esempio le manipolazioni genetiche). L’etica di Rahner renderebbe certamente lecito il sesso come gender.
Per Rahner non esiste una legge morale naturale universale, oggettiva ed immutabile, per cui il peccato non è contravvenzione a questa legge, ed allora i singoli peccati (“atti categoriali”) non compromettono l’orientamento fondamentale verso Dio , ma l’unico vero peccato è il rifiuto dell’esperienza trascendentale, connessa con l’“opzione fondamentale”, la quale però è inevitabile e presente in tutti. Da qui, per conseguenza, l’innocenza di tutti: è quello che ormai si conviene di chiamare col nome di “buonismo”, una vera perversione del concetto della bontà morale, la quale non può esse dissociata dal concetto della malizia e del peccato.
Da qui il fatto che comunque tutti si salvano, anche coloro che rifiutano quell’opzione, perchè comunque la fanno, essendo essa costitutiva dell’esistenza umana. Nella confessione sacramentale pertanto non si tratta di elencare degli atti categoriali (la “lista della spesa”), ossia dei peccati, ma semplicemente di testimoniare la propria esperienza cristiana.
In tal modo gli effetti dell’etica rahnerina, col suo relativismo lassista, congiunto con l’illusione di essere comunque sempre in grazia e totalmente indirizzati a Dio (l’“opzione fondamentale”) e quindi innocenti e perdonati, distogliendo la sguardo da una legge morale oggettiva, nella quale non si crede, ma diventando legge a se stessi con il pretesto della libertà, indebolisce il senso del peccato e fa sì che non si dia importanza neppure ai peccati gravi.
Tuttavia l’uomo rahneriano non rinuncia a considerarsi, con la sua “opzione fondamentale”, tutto di Dio e addirittura un mistico nel momento in cui si lascia andare a una perversa tolleranza delle proprie miserie e delle proprie colpe e trascura di lavorare seriamente per la propria emendazione e il proprio progresso morale.
Per rimediare a tutto ciò si può dare un contributo decisivo ricordando le radici teoretiche, trascendentaliste, idealiste e panteiste, della morale rahneriana e cercando di eliminarle. L’azione sorge dal pensiero, e se il pensiero è corrotto, anche l’azione che ne scaturisce non può che essere corrotta.
Proprio in nome della necessaria riforma di costumi morali è urgente che ritroviamo, per dirla con Mons. Antonio Livi, un autentico pensiero teologico e che il Magistero della Chiesa recuperi il suo compito tradizionale di indicare le radici degli errori che conducono alla dissoluzione della morale.
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