L’autorità dottrinale del Concilio Vaticano II


Come si pone oggi la questione

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Da cinquant’anni si sta discutendo sull’autorità dottrinale del Concilio. Abbiamo sentito un incrociarsi di opinioni e interpretazioni da sponde diverse dell’area cattolica. Come sempre accade in queste circostanze, si è avuto sia il massimalismo di chi ha accolto tutto senza discussioni, esaltando il Concilio quasi fosse la summa di tutta la dottrina cattolica, che il minimalismo di chi si è sentito autorizzato o anche in dovere di metter in discussione o addirittura di contestare certe prese di posizione del Concilio o in  nome della Tradizione o al contrario perché il Concilio non avrebbe accolto le istanze più innovative della ricerca teologica e della vita ecclesiale di oggi. L’organismo ecclesiale direttivo che ha la funzione ufficiale di interpretare, far conoscere, commentare e far applicare le decisioni del Concilio è indubbiamente il Magistero della
Chiesa. Questo continuamente si rifà al Concilio lodandolo e celebrandolo sempre senza discussioni e senza condizioni. Spesso lamenta che il Concilio non sia applicato ed esorta insistentemente alla sua applicazione.Mai nel Magistero un accenno a che almeno qualche decisione del Concilio debba o possa essere mutata o corretta o abrogata, il che può indurre nei fedeli l’idea che l’autorità del Concilio sia in tutto e per tutto indiscutibile. Ma vedremo che non è così e che la Chiesa stessa ci dà il criterio per individuare nelle abbondantissime dottrine del Concilio diversi livelli di autorità non tutti dello stesso peso: un discernimento importante, che va fatto con attenzione, per non sopravvalutare il meno autorevole e non sottovalutare il principale.Invece in certi ambienti della Gerarchia, fra i teologi, i filosofi, i moralisti, i pastoralisti, i liturgisti, i pubblicisti e nel semplice popolo fedele da decenni sono animate le discussioni, forte è il contrasto di interpretazioni e di opinioni, fino a giungere all’attuale profondo solco che si è scavato tra le due ali estreme dei lefebvriani, una piccola ma agguerrita minoranza, e i modernisti di varie tendenze, i quali, dopo una perseverante scalata durata decenni (dal 1968), sono giunti oggi ad avere un considerevole potere nella Chiesa, con gran disagio dei cattolici normali, purtroppo in minoranza, desiderosi di equilibrio, di concordia e di pace in una piena comunione con la Chiesa e col Vicario di Cristo.Per alcuni il Concilio è troppo innovativo sino a uscire dalla retta dottrina; per altri lo è troppo poco, ed è rimasto legato ad un passato ormai finito. Ma con quali criteri giudicano gli uni e gli altri? Mi pare sempre attuale chiarire il più possibile tali criteri, sebbene il tentativo sia stato fatto più volte e molti non mettano in discussione un loro proprio criterio decisamente sbagliato, che porta ovviamente a giudizi sbagliati, condannati o condannabili dalla Chiesa.Il Santo Padre, supremo interprete del Concilio, purtroppo da una parte è aspramente e irriverentemente attaccato da alcuni, che lo accusano d’infedeltà alla Tradizione, mentre è ipocritamente esaltato da altri, che vorrebbero strumentalizzarlo approfittando di qualche sua mossa o espressione forse imprudente, ma che non offusca per nulla la sua intangibile autorevolezza dottrinale di Maestro della fede e sommo Pastore della Chiesa su questa terra, di “dolce Cristo in terra”.La questione dell’autorità dottrinale del Concilio non è semplice, perché, com’è noto, l’ultimo Concilio si distingue dai precedenti perché le sue dottrine non sono esposte secondo il tradizionale metodo dei canoni, che si esprimono in formule brevi, perentorie, chiare, sintetiche, precise ed univoche, in maniera imperativa o comminatoria, con l’accompagnamento della relativa sanzione penale per i disobbedienti o i renitenti.Viceversa l’ultimo Concilio ha uno stile semplicemente dichiarativo, dimesso, omiletico o esortativo, con testi prolissi, che non mette chiaramente in luce i punti principali; e d’altra parte non avrebbe senso pensare che ogni sua parola goda del grado massimo di autorità. Dov’è dunque che esso si esprime con maggior forza? Cos’è veramente e supremamente vincolante? Questo studio si propone di offrire il criterio di una valutazione basandosi sugli stessi insegnamenti della Chiesa.Osserviamo tuttavia che un aiuto importante per sapere quali sono le dottrine maggiormente vincolanti del Concilio è certamente il Catechismo della Chiesa Cattolica. Inoltre molti chiarimenti sono stati dati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con la condanna di diversi errori emersi dalla fine del Concilio ai nostri giorni. Tuttavia si desidererebbe che Roma chiarisse definitivamente quei passi, in fondo pochi, del Concilio, che tuttora si prestano a interpretazioni errate.C’è da dire, inoltre, che da più parti persiste la convinzione che gli insegnamenti del Concilio siano soltanto direttive o disposizioni pastorali e non vi siano nuove dottrine. Tale convinzione è fondata sulle parole stesse di Giovanni XXIII e nel suo discorso inaugurale del Concilio Gaudet Mater Ecclesiae, laddove effettivamente il Pontefice assegna al Concilio il compito di esporre persuasivamente in modo adatto all’uomo d’oggi il perenne patrimonio della fede cattolica. Inoltre questa qualifica di “pastorale” è attribuita al Concilio nelle “notificazioni fatte dal Segretario Generale del Concilio il 16 novembre 1964 nella 123a Congregazione generale, in appendice alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium”.Sennonché c’è da rilevare che di fatto il Concilio, con l’avvento di Paolo VI, aggiunse ad una modalità pastorale un orientamento dogmatico, come è attestato dalle stesse “Costituzioni dogmatiche” del Concilio. In particolare, come spiegò il Papa, il Concilio si assunse anche il compito di approfondire ed esplicitare l’ecclesiologia e l’antropologia cattoliche.    Al riguardo, però bisogna ricordare che la parola “pastorale” può aver due sensi: per “pastorale” si può intendere una direttiva pratica data ai pastori per l’esercizio del governo del loro gregge, oppure può trattarsi di una maniera del linguaggio, per cui anche una dottrina dogmatica può esser esposta in un linguaggio pastorale. E questa fu appunto la caratteristica delle dottrine del Concilio.Da considerare inoltre che da questo ulteriore orientamento dottrinale voluto da Paolo VI nacque evidentemente la questione di quale autorità si dovesse assegnare alle nuove dottrine del Concilio. Infatti - come vedremo meglio - se da una parte le indicazioni pastorali del Magistero non godono del carisma dell’infallibilità, dall’altra,  quando il Magistero, soprattutto in un modo solenne e straordinario, come  può essere un Concilio ecumenico, propone dottrine nuove su temi di fede o connessi con la fede, tali dottrine, che non fanno altro che chiarire o spiegare o commentare o sviluppare o esplicitare o riformulare dati già noti della divina Rivelazione, non possono assolutamente contenere errori, come a dire che sono infallibili, anche se il Magistero non dichiara esplicitamente che lo sono o che si tratta di verità di fede. Questa è la tesi che svilupperò in questo saggio.Inoltre, se il Concilio non contiene nuovi dogmi definiti, il suo intento e il suo carattere dichiaratamente innovativo è fuor di dubbio: c’è una riforma di leggi, usi e costumi e si dà un vero progresso o avanzamento dottrinale. Per questo, la corrente cosiddetta “progressista” dei Padri, che emerse già nel corso dei lavori del Concilio, apparve come la migliore interprete degli intenti dello stesso Concilio.Ma è stato tutto e solo progresso quello che è uscito dal Concilio o c’è stato qualche strappo con la Tradizione? Per questo, tutti i lavori del Concilio sono stati provvidenzialmente percorsi anche dai Padri che erano preoccupati di salvaguardare o conservare la Tradizione. Come giudicare i risultati di questo grandioso e dotto dibattito? Quale la loro autorità? Ecco, ancora, il tema di questo scritto[1].
  

Che cosa ci dice lo stesso Concilio


Su questo argomento dell’autorità del Concilio, il Concilio stesso ci dà già un’indicazione[2], la quale però si limita a considerare l’aspetto pastorale del Concilio e non entra nella questione della sua autorità dogmatica. La cosa può sorprendere, dato che questo pronunciamento si trova alla fine di una Costituzione dogmatica qual è la Lumen Gentium, ma ciò significa che non possiamo accontentarci di tale notificazione, ma occorre che andiamo a cercare altri aiuti presso il Magistero della Chiesa. Tuttavia qui il termine “pastorale” potrebbe alludere non a direttive pratiche, ma al linguaggio che il Concilio ha voluto adottare anche per gli insegnamenti dogmatici.
In ogni caso, la suddetta Notificazione risponde in questo modo: “Conformemente al costume dei Concili e alla finalità pastorale del presente Concilio, questo Sinodo definisce come vincolante la Chiesa solo ciò che, in materia di fede e di costumi, esso avrà esplicitamente dichiarato tale. Le altre cose che il Santo Sinodo propone, in quanto dottrina del Magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli  devono accoglierle e ritenerle, secondo la mente dello stesso Sacro Sinodo, la quale si manifesta sia dalla materia trattata, sia dal tenore dell’espressione verbale, conforme alle norme d’interpretazione teologica”.
Ciò vuol dire che quanto il Concilio non definisce come  vincolante non è vincolante? E se non fosse vincolante, ciò implicherebbe che qui la Chiesa può sbagliare? È quello che credono coloro che appunto ritengono che nel Concilio ci siano degli errori dottrinali. D’altra parte bisogna riconoscere che qui il Concilio fa riferimento al suo carattere pastorale. Tuttavia si parla anche di “Magistero supremo della Chiesa”, il che può far pensare che alluda anche alle nuove dottrine del Concilio, oltre che alla dottrina di fede dogmatica definita esistente nel Concilio.
È così che alcuni, in base al fatto che il Concilio non contiene nuove definizioni dogmatiche, ma solo nuove dottrine in materia di fede non definite come di fede, si credono autorizzati a pensare che il Concilio contenga o possa contenere errori dogmatici, ossia non sia infallibile. Per costoro è di fede solo ciò che la Chiesa propone o definisce esplicitamente come di fede. Solo questa dichiarazione solenne e straordinaria della Chiesa darebbe certezza che siamo davanti a una verità di fede ovvero a un dogma. Solo in questo caso la Chiesa sarebbe “infallibile”. Negli altri casi potrebbe sbagliare.
Essi amano rifarsi all’insegnamento del Concilio Vaticano I, dove si dice che “con fede divina e cattolica si devono credere tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata e sono proposte a credere come divinamente rivelate dalla Chiesa, sia con solenne giudizio, sia nel magistero ordinario ed universale” (Denz 3011).
 

La questione del magistero infallibile


Osserviamo però che qui la Chiesa dà certo le note dell’infallibilità, ma non dice che è infallibile solo in questo caso e che non esistano casi nei quali essa sia infallibile ossia assolutamente verace senza dichiarare che la dottrina è infallibile o è rivelata o è di fede. Così per esempio io posso dire che l’uomo è un vivente che respira ossigeno, ma con ciò non dico che sia l’unico vivente che respira ossigeno.
Ora, le nuove dottrine del Concilio certamente non sono “proposte come divinamente rivelate”. Ma allora le dottrine del Concilio non hanno nulla a che vedere con la fede? Possono essere divinamente rivelate anche se non dichiarate come tali? È possibile riconoscere nella nuova dottrina di un Concilio una verità di fede, anche se il Concilio non la definisce come tale? E se sì, con quali mezzi? In che modo?
I sostenitori dell’infallibilità ovvero della verità di fede esistente solo nelle definizioni solenni citano anche il dogma dell’infallibilità pontificia, infallibilità che vale quando il Papa “parla ex cathedra, cioè quando… definisce  una dottrina sulla fede e sui costumi” (Denz 3074). Solo in tal caso, essi dicono, il Magistero è “infallibile”. Allora negli altri casi è fallibile?
Ma allora “le altre cose” delle quali parla la Notificazione, come “dottrina del Magistero supremo della Chiesa”, hanno qualcosa a che fare con la fede? Si tratta di dottrine infallibili o fallibili? Vere o falsificabili? La “dottrina del Magistero supremo della Chiesa” può contenere errori?
Una risposta la ricaviamo dalla Professione di Fede oggi prescritta dalle leggi della Chiesa a coloro che assumono uffici ecclesiastici, soprattutto ai docenti di teologia. Il primo comma enuncia: “Credo con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato”.
Esiste tuttavia un secondo comma che fa riferimento a “verità circa la dottrina che riguarda la fede”, dove non si parla di verità definite come verità di fede o rivelate, e tuttavia proposte in modo definitivo. Dice: “Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo”[3].
Se sono proposte in modo definitivo, evidentemente saranno dottrine infallibili, tuttavia non dichiarate come tali o come verità di fede. Dunque la Chiesa può enunciare dottrine infallibili ovvero verità di fede anche senza dichiararle o definirle come verità di fede o rivelate.
Il terzo comma dice: “Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto alle dottrine che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarle con atto definitivo”.
Questi due livelli di autorità dottrinale o dogmatica li troviamo anche nel Diritto Canonico, al can.750 in due paragrafi corrispondenti rispettivamente al primo e secondo comma della Professio Fidei: “§ 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria.
§ 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente”.
Per quanto riguarda il terzo comma, è da notare quanto dice la Congregazione per la Dottrina della Fede nella nota annessa alla Lettera Ad tuendam Fidem: “A questo comma appartengono tutti quegli insegnamenti - in materia di fede o morale - presentati come veri o almeno come sicuri, anche se non sono stati definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero ordinario e universale. Tali insegnamenti sono comunque espressione autentica del magistero ordinario del Romano Pontefice o del Collegio dei Vescovi e richiedono, pertanto, l'ossequio religioso della volontà e dell'intelletto. Sono proposti per raggiungere un'intelligenza più profonda della rivelazione, ovvero per richiamare la conformità di un insegnamento con le verità di fede, oppure infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità o contro opinioni pericolose che possono portare all'errore”. Anche in questi insegnamenti non può cadere il falso, dato che trattano anch’essi di materia di fede o di morale, per cui anche qui si può parlare di infallibilità, anche se manca la nota della definitività. Ma se la Chiesa qui non dichiara la definitività, non vuol dire che essa non ci sia, sempre per il fatto che tratta di fede e di morale e queste verità sono definitive.


Commento


Io sostengo allora che le nuove dottrine del Concilio godono dell’autorità non del primo livello, proprio soltanto dei nuovi dogmi solennemente definiti, ma del secondo e del terzo livello, dove la “definitività” è certamente sinonimo di “infallibilità”, il che vuol dire che si tratta di verità assolute, le quali quindi non possono “fallire”, ossia mutarsi nell’errore.
Il problema vero invece è quello di saper riconoscere in nuove dottrine i loro logici presupposti in dottrine già definite o nella Scrittura o nella Tradizione. In altre parole, si tratta di riconoscere la continuità della dottrina nuova con quella preconciliare. Siccome questa si suppone ovviamente come immutabilmente vera, trattandosi di dottrina di fede, la nuova dottrina sarà per conseguenza vera, in quanto è possibile rendersi conto del fatto che la dottrina nuova non è che una conseguenza o un’esplicitazione tratta da quella preconciliare, intesa come premessa di quanto da questa ha ricavato il Concilio.
 E si sa che in buona logica, quando si trae regolarmente una conclusione da una premessa vera, anche la conclusione è vera e conferma la premessa, esplicitando le virtualità conoscitive che essa conteneva. In tal modo in teologia la nuova dottrina o il nuovo dogma è un cosiddetto virtualiter revelatum, ossia virtualmente rivelato, che viene esplicitato inizialmente dai teologi sotto forma di tesi teologica. Nel caso poi che la Chiesa riconosca in questa tesi un dato di fede, può elevarla al rango di dottrina di fede.
Il fedele in questo caso non conosce una cosa nuova, ma conosce meglio o in modo nuovo quello che già sapeva. Conosce, come si dice, non nova sed nove, cioè non cose nuove ma un modo nuovo di insegnare le medesime cose. Che infatti si deve mai aggiungere a quanto Cristo ha rivelato agli apostoli? Non si tratta di aggiungere ma di far capire meglio! Tanto meno si tratta di mutare quella Parola divina, per la quale Cristo ha detto: “cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
In questo caso quindi il nuovo non smentisce né muta l’antico. Qui non esiste un nuovo che sostituisce un vecchio, come sostituiamo le scarpe nuove a quelle vecchie, ma un nuovo che si aggiunge e fa meglio comprendere l’antico, come ad esempio una migliore conoscenza del sistema nervoso si aggiunge a quella che ne avevamo in precedenza e la migliora.
 Il progresso della conoscenza non muta l’oggetto o non suppone un mutamento dell’oggetto, ma ne migliora la conoscenza, a meno che gli oggetti non mutino; ma non è questo il caso della conoscenza di fede, il cui oggetto è immutabile. Per questo ogni Concilio, compreso l’ultimo, al di là di certe apparenze, delle quali approfittano disonestamente alcuni e si allarmano inopportunamente altri, non cambia mai oggetto della fede (sarebbe un tradire Cristo!), ma ce lo fa infallibilmente conoscere sempre meglio. Il vero “progressismo “ non è quello dei modernisti ma quello che lo stesso Concilio ci propone: progressonella continuità e nella fedeltà.
Così la nuova Chiesa del Vaticano II non è una Chiesa che divora se stessa con la scusa del nuovo e del progresso e getta la precedente nei rifiuti della storia, una Chiesa in rotta con la precedente, ma è la stessa e identica Chiesa di sempre, fedele al dogma immutabile, fondata duemila anni fa da Gesù Cristo, semplicemente conosciuta e illustrata meglio dal Concilio Vaticano II.
Il mutamento non riguarda il contenuto intellegibile del dogma sulla Chiesa in se stesso, che ovviamente sarà sempre quello (quoad se) fino alla fine dei secoli, ma riguarda il nostro modo (quoad nos) di conoscere  l’immutabile verità, modo che progredisce e migliora continuamente nel corso della storia.

Il vero progresso


Il vero progresso nella conoscenza di valori perenni - e questo è il nostro caso - non avviene contraddicendo quello che si è detto sino ad allora, secondo la concezione storicistica hegeliana o marxista, ma confermandolo, spiegandolo o conoscendolo meglio e più distintamente, con l’aggiunta eventuale di nuovi argomenti di convenienza tratti dalle varie culture e in forme espressive più convenienti.
In questo senso si può dire che la dottrina dogmatica è sempre identica a se stessa, mutando eventualmente solo la forma espressiva o le formule verbali per un’intelligenza migliore e più approfondita o adatta alle circostanze.
Facciamo alcuni esempi.
Primo, la nuova dottrina conciliare sulla divina Rivelazione contenuta nel cap. I della Dei Verbum, laddove si aggiunge alla definizione dogmatica contenuta nel Concilio Vaticano I la precisazione che la Rivelazione non avviene solo in modo verbale ma anche con eventi, in quanto essa non è da intendersi solo come insegnamento dottrinale o verbale di Gesù Maestro, ma come vera e propria concreta e storica manifestazione di Cristo all’uomo.
Per conseguenza la fede non sarà più soltanto apprendimento intellettuale, ma anche incontro esistenziale e affettivo con Cristo dell’intera persona del credente. Se vogliamo, si tratta di un elemento “esistenzialistico”, ma del tutto innocuo, perché non contraddice affatto ma si congiunge al contenuto essenziale del dogma insegnato dalla Rivelazione.
È evidente pertanto che qui il concetto di Rivelazione non viene mutato, ma arricchito e meglio illustrato, utilizzando un valore del pensiero moderno e quindi senza alterare l’insegnamento del Vaticano I, ma con la possibilità di entrare ulteriormente nello spessore del Mistero ricevendo nuova luce cha aumenta la precedente su di una verità divina immutata ed immutabile.
Secondo esempio, la libertà religiosa. Ben consapevole della delicatezza dell’argomento, il Concilio si premura di ricordare, se ce ne fosse bisogno, che “il Concilio Vaticano esamina la sacra Tradizione e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi sempre in armonia con quelli antichi”[4].
E più esplicitamente il Concilio, poco dopo, quasi a metter le mani avanti, “dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata, sia mediante la stessa ragione” (n.2; cf n.9).
Infatti qui entrano in gioco quattro concetti fondati non solo sull’umana ragione, ma anche sulla Rivelazione e la tradizionale dottrina della Chiesa: quello di persona, quello di coscienza, quello di libertà, quello di religione. Avendo questi concetti un legame con la fede, non è permesso di credere, come fanno alcuni, che qui il Concilio sia caduto nell’errore, quasi che il Concilio abbia approvato quella concezione liberale e soggettivistica della coscienza, che in passato era stata condannata dal Beato Pio IX.
Il Concilio insegna invece che il diritto alla libertà religiosa esige che “in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito entro debiti limiti di agire contro la sua coscienza” (n.2). Il medesimo documento però fa notare anche: 1o, il dovere di tutti di aderire alla “vera religione e all’unica Chiesa di Cristo” (n.1); 2o, l’“obbligo morale di cercare la verità e di aderire ad essa” (n.2); 3o, ricorda che “la norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva ed universale” (n.3), e 4o, l’esistenza di un “ordine morale oggettivo” (n.7).
È evidente allora quale concetto di coscienza risulti da queste premesse poste dal Concilio, del resto in continuità con la tradizione millenaria della Chiesa fondata sul Nuovo Testamento (Rm 2,15; 9,1; 13,5; II Cor 1,12; 10,25-30): la norma suprema non è la coscienza individuale, ma la legge divina, oggettiva ed universale.
A questo punto dobbiamo dire che la coscienza non è la regola prima e assoluta della verità morale, ma questa regola è la legge naturale e divina, percepita dalla ragione e dalla fede. La coscienza ha quindi l’obbligo di adeguarsi a quella regola e, quando è onesta, avverte il dovere o imperativo categorico di farlo (Kant) e sente il rimprovero della coscienza se non lo fa.
 La coscienza, a causa delle conseguenze del peccato originale, è fallibile, ma se sbaglia in buona fede (“ignoranza invincibile”), resta innocente. La coscienza è regola prossima e immediata dell’agire e il soggetto quindi deve ascoltarla, ma essa a sua volta, per essere retta, deve informarsi presso la regola remota e fondamentale che è la legge morale o il proprio dovere e aderire ad esso. Tutto ciò, se non appare esplicitamente nell’insegnamento del Concilio, è evidentemente sottinteso, dato che corrisponde alla dottrina costante o sempre insegnata o approvata dalla Chiesa[5].
 La vera libertà di coscienza è la facoltà di obbedire volontariamente alla legge, in un legittimo spazio di scelte riservato all’individuo entro i limiti della legge; la libertà di coscienza è altresì, come dice il Concilio, possibilità di azione non coartata da violenza, ma spontaneamente emanante dal libero volere, anche se fondata sull’obbligo morale e l’imperativo categorico del dovere. In lege libertas, come dicevano gli antichi Romani.
L’azione morale emana certo dal soggetto, ma è regolata dall’oggetto, né è diritto del soggetto, come avviene nel soggettivismo morale, stabilire la legge basilare dell’agire morale. Dunque, nessuna traccia di soggettivismo morale nel Concilio, come dicono calunniosamente alcuni critici sprovveduti per non dire malevoli.
Appellarsi alla coscienza per disobbedire alla legge o all’autorità, non è diritto di nessuno, ma colpa più o meno grave contro i valori che sono in gioco. Infatti, non si tratta più di buona fede ma d’ignoranza arrogante ed affettata.
Ci sarebbe al riguardo da chiedersi per esempio se quando Lutero alla Dieta di Worms si appellò alla sua coscienza per disobbedire alla Chiesa e rifiutare le sagge e salutari ingiunzioni che gli venivano fatte, fruì veramente del diritto alla libertà religiosa o non piuttosto si ostinò in una sciagurata ribellione, che tante infelici anime avrebbe trascinato con sé. Con simile atteggiamento infatti qualunque religioso potrebbe rifiutare a capriccio obbedienza al suo superiore sotto pretesto di “libertà religiosa”.
Il dovere di seguire la coscienza e il diritto di non essere impedito proclamati dal Concilio, non vanno quindi intesi come tracotante elevazione della coscienza soggettiva a principio dell’agire morale o dell’attività religiosa, ma vanno inquadrati nel contesto citato dell’oggettività dei valori morali e religiosi ed in particolare del primato della religione cristiana sulle altre religioni.
Il Concilio non parla della coscienza erronea, né distingue l’errore colpevole da quello involontario; ma è chiaro che affermando il diritto-dovere di seguire la propria coscienza e che essa sia libera, implicitamente afferma la dipendenza della coscienza dalla verità oggettiva, senza la quale, come insegna Cristo, non c’è libertà. Se poi il soggetto involontariamente si sbaglia nella conoscenza del bene morale, anche in questo caso, salve le esigenze del bene comune o dell’ordine pubblico, il soggetto dev’essere lasciato libero di seguire la propria coscienza.
Ora questa dottrina, come ho detto, certamente possiede agganci e premesse nella storia della morale cattolica, e se l’esaminiamo con attenzione, ci accorgeremo che essa è in continuità con quella tradizionale, costituendone un’esplicitazione.
Un terzo esempio lo troviamo nella dichiarazione Nostra Aetate sul dialogo interreligioso. Il concetto stesso di dialogo, così importante nei documenti conciliari, applicato in molteplici occasioni, come il dialogo interecclesiale, il dialogo politico e culturale, il dialogo Chiesa-mondo, il dialogo ecumenico e quello con i non-credenti, è un concetto con indubbia radicazione biblica e quindi nella divina rivelazione, anche se il Concilio non dà una definizione dogmatica del dialogo. Infatti che cosa è la stessa Alleanza da Mosè a Cristo e la divina Rivelazione se non un dialogo tra l’uomo e Dio?
Ebbene, nella Nostra Aetate sono contenute novità di grande rilievo nella storia del Magistero della Chiesa: per la prima volta la Chiesa in tutta la sua storia, trattando di altre religioni, e dello stesso ebraismo, non ne condanna gli errori (tale condanna naturalmente è presupposta), ma prende in considerazione gli aspetti positivi. Ora, trattandosi di temi teologici, e attesa l’infallibilità della Chiesa in campo teologico, è evidente l’infallibilità del magistero conciliare in questo segnalarci i suddetti aspetti positivi.
Un’ultima osservazione. Il linguaggio del Concilio, più che esser quello tradizionale del Magistero, è in gran parte il linguaggio dell’uomo moderno. Inoltre il Concilio ha voluto avere un linguaggio pastorale non solo nei documenti pastorali, ma anche in quelli dogmatici. Ciò comporta vantaggi, perché così la Chiesa si fa meglio capire, ma anche svantaggi, perché il linguaggio moderno, soprattutto in campo filosofico e teologico, è spesso improprio ed equivoco e risente degli errori delle varie correnti di pensiero.
Ciò ha fatto sì che nei documenti dottrinali vi siano alcune tesi che possono essere interpretate in senso modernista (antropocentrismo, illuminismo, soggettivismo, secolarismo), cosa che appunto è stata fatta dai modernisti, generando quell’esegesi “di rottura” a suo tempo condannata da Benedetto XVI.
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A tal riguardo il Magistero è intervenuto per chiarire, ma non pare lo abbia fatto finora in modo sufficiente, perché non si è premurato di condannare le false interpretazioni, come per esempio quella rahneriana, le quali invece circolano abbondantemente e liberamente dappertutto, persino nei centri educativi e di formazione della Chiesa, facendo credere a molti che Rahner sia il grande interprete e protagonista del Vaticano II - l’“icona del Concilio”, come qualcuno lo ha chiamato -  mentre in realtà ne è il falsificatore, come ho dimostrato in un mio libro[6] insieme con altri studiosi.
In conclusione, è importante distinguere i vari gradi di autorevolezza degli insegnamenti del Concilio, perché si va da pronunciamenti autenticamente dogmatici, anche se non definiti o definitori (“ex cathedra”), a giudizi e disposizioni pastorali e contingenti, che possono essere del tutto discutibili o addirittura sbagliati, così da richiedere una correzione o un mutamento o un’abrogazione o un ritorno all’antico[7].

Note




[1] Su questa ampia tematica mi permetto di indicare il mio libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio, Edizioni Fede & Cultura, Verona 2011.
[2] Si tratta delle Notificazioni fatte dal Segretario Generale del Concilio nella 123a Congregazione generale del 16 novembre 1964, in appendice alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium.
[3] Questo secondo comma è stato di recente inserito nel Codice di Diritto Canonico per volontà a Giovanni Paolo II prendendo spunto dal secondo comma della Professio Fidei.
[4] Dichiarazione Dignitatis humanae, Proemio.
[5] Cf S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, qq.18-19.
[6] Giovanni Cavalcoli, Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede & Cultura, Verona 2009.
[7] Per esempio in campo liturgico forse non sarebbe male recuperare alcuni elementi della Messa vetus ordo. Pare che Benedetto XVI fosse orientato in questo senso.

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