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Il gesto esterno o il modo di pronunciare le formule di rito nella celebrazione liturgica non toccano necessariamente la sostanza del sacramento, che può restare valido ed efficace per i fedeli, e tuttavia, se sono inappropriati o inadeguati o inadatti ad esprimere correttamente e dignitosamente gli atti essenziali da compiere, soprattutto in relazione alle norme della Chiesa, possono essere addirittura il segno indiretto, magari inconsapevole, di una visione profanata della stessa liturgia, che così non è più un atto di fede, ma una faccenda umana come quella del cuoco, dell’attore o del prestigiatore.
Non c’è bisogno di spendere molte parole per ricordare quel fenomeno increscioso per non dire scandaloso, molto diffuso e poliforme, che potrebbe esser designato col nome di “liturgia secolaristica” o per converso “secolarismo liturgico”, molte volte denunciato dalle persone pie, devote e attente alla
sacralità delle celebrazioni liturgiche, proprio così come sono prescritte dalla riforma promossa dal Concilio Vaticano II, al quale indebitamente invece si appellano coloro, purtroppo numerosi anche tra i sacerdoti e forse anche vescovi, i quali pretendono di avallare il loro secolarismo profanatore con la copertura dell’autorità del Concilio o del cosiddetto “spirito del Concilio”.
Il secolarismo liturgico è uno degli aspetti del più generale fenomeno del secolarismo teologico e morale, che ha corrotto non solo la liturgia, la quale maggiormente ne risente, ma anche altri settori della vita e dello stesso pensiero cristiano, come la concezione della Chiesa, del sacerdozio, della vita religiosa, della spiritualità, della morale e della teologia. Il senso stesso del divino è stato compromesso, diventando una specie di buonismo pacioccone, facilone e abitudinario.
Nel secolarismo, come dice la parola stessa, emerge, come fosse un assoluto, il “secolo”, ossia il mondo o, se vogliamo, l’umano, il profano, il laicale, l’effimero, il terreno, la storia, l’“orizzontale”, come si diceva qualche decennio fa. Naturalmente Dio viene ammesso, ma non come veramente trascendente, non come Dio “che abita nei cieli”, ma, con la scusa dell’Incarnazione, come Dio materializzato, mondanizzato, storicizzato, banalizzato. Non si distinguono più le due nature di Cristo ma si appioppano senz’altro alla natura divina miserie proprie della natura umana, la sua mutabilità, la sua fragilità, la sofferenza, la stessa ignoranza. Viene fuori un “Dio” disgraziato che non ha pietà, ma fa pietà.
Anche quando si parla di “trascendenza”, di “soprannaturale”, di “grazia”, come nella teologia di Rahner, tutto ciò è posto in una visuale di fondo di tipo idealistico-immanentista, nella quale il reale si risolve nel mio pensiero, per cui tutto, anche Dio si risolve nell’uomo e nel pensiero e nell’attività dell’uomo.
Quanto alla teologia della liberazione, il secolarismo è evidente ed esplicito con la sua tendenza ad assegnare al cristianesimo come fine quello di instaurare la giustizia, la pace, la libertà e la felicità semplicemente in questo mondo, con una concezione della Chiesa di tipo meramente politico, “dal basso” (Iglesia popular), una Chiesa quindi senza gerarchia, dove non è Cristo, ma il popolo che sceglie i pastori.
Nel secolarismo sono colpiti evidentemente i valori più elevati, che stanno più vicino al “cielo”: appunto la liturgia, l’ascetica, la mistica, la santità, la religione, la teologia. Viceversa restano abbastanza immuni quei valori che per loro natura appartengono a questo mondo, come la condizione laicale con tutte quelle attività terrene che le competono (economia, lavoro, commercio, politica, scienza, tecnica, medicina, educazione, giurisprudenza, matrimonio, attività militari, ecc.), anch’esse ovviamente via alla santità, ma che per loro natura restano confinate a questo mondo e non riguardano quello futuro.
In sostanza, nel secolarismo si ha una profanazione del sacro e simultaneamente un’esagerata valutazione del profano, del “secolare”, che tende a sostituirsi al sacro, considerato una cosa ormai desueta, mitologica, primitiva, propria di una religiosità medioevale, superstiziosa e superata.
Osserviamo allora che il medico esperto, da piccoli fenomeni esterni nel paziente, apparentemente insignificanti, riesce a diagnosticare una grave malattia, anche se è vero che ci sono persone che sembrano vicine alla morte, ma in realtà hanno una costituzione fisica così robusta, che le conduce alla tarda vecchiaia.
Così da piccoli segni è possibile, se facciamo attenzione, riconoscere un’impostazione di fondo secolarista. Di questi segni ormai ne sono noti molti, sui quali pertanto non intendo fermarmi, come per esempio il protagonismo del celebrante, la fretta e la sciatteria oppure all’opposto le inutili lungaggini con le quali si celebra la Messa, gli interventi arbitrari del celebrante nel mutare, aggiungere e togliere, dettati da un’eccessiva preoccupazione di adattarsi alle circostanze, cosa che però a volte mette e rischio l’essenza della Messa, una sguaiata e inopportuna festosità, anche nelle Messe per i defunti, che fa dimenticare l’aspetto della mestizia e del sacrificio, i canti chiassosi e profani nella Messa, la mancanza di intervalli di silenzio, di raccoglimento e di atteggiamenti religiosi. Celebrazioni dove non c’è la pietà, la pietas, ma che fanno pietà.
Vorrei invece qui fermarmi su sei punti, che non mi pare vengano messi abbastanza in luce e colti nel loro significato secolaristico.
1. Il modo col quale il celebrante parla e pronuncia le formule del rito, soprattutto il Canone o Preghiera eucaristica. Non si ha l’impressione che creda veramente a ciò che dice. Manca il tono della supplica, dell’implorazione, dell’invocazione da parte di chi sente il dolore per i propri peccati, il pericolo della dannazione e invoca con fiducia la divina misericordia. Il tono della voce è invece quello che potrebbe avere il vigile urbano che dà indicazioni a un passante su come trovare una data strada o dell’impiegato postale che istruisce il cliente sugli aumenti delle affrancature. Confusione tra il sacro e il profano.
2. La direzione dello sguardo, che in certi momenti anche per prescrizione rubricistica dovrebbe essere rivolto verso il cielo. Il Canone Romano prescrive, infatti, nel momento solenne dell’epiclesi che il celebrante, a imitazione di Cristo, volga lo sguardo al cielo, cioè al Padre, che è nei cieli. Perché nelle chiese antiche la volta è affrescata? Evidentemente per aiutare l’occhio a guardare in alto. Qual è quel celebrante che si attiene a questa norma, una cosa che dovrebbe essere spontanea? Così parimenti capita che celebranti e popolo al Padre Nostro “che sei nei cieli”, invece di volgere lo sguardo verso l’alto, come del resto vediamo in tutta l’iconografia agiografica da sempre, eccoli tutti a guardare in basso o alla predella dell’altare o le scarpe dei concelebranti e dei fedeli. Oppure, ben che vada, in un atteggiamento che andrebbe meglio per la meditazione o l’esame di coscienza o, peggio, assomiglia alla meditazione buddista alla ricerca del Dio immanente coincidente con l’autocoscienza. Guardare non in alto (il sacro) ma in basso (il profano).
3. La mania di aggiungere spiegazioni, commenti, excursus, raccomandazioni, esortazioni, battute di spirito, avvisi all’interno del rito, credendo forse di essere più “pastorali”, quasi che il rito non sia sufficientemente espressivo o interessante da se stesso, ma avesse bisogno di integrazioni o supplementi, come avviene in quelle religioni sincretistiche dove si pensa che Cristo, la Madonna e i Santi non bastino, ma occorrano altre assicurazioni con idoli o personaggi o santoni presi da chissà quali superstizioni indigene primitive, che sconfinano nella magia e nel folklorismo. Inserzione indebita del profano nel sacro.
4. Dopo la consacrazione il celebrante innalza sull’altare il pane e il vino consacrati. Che senso ha questa elevazione? Un tempo venivano elevati ad una certa altezza, al di sopra del capo del celebrante. Perché? Per significare che l’offerta era fatta a Dio, a quel Dio che è nei cieli, al di sopra dell’uomo. Era un gesto molto significativo nella linea con l’offerta del sacrificio. Non solo, ma il celebrante restava un certo tempo in questo gesto d’offerta, in modo che le oblate potessero essere contemplate dal popolo e ad esse potesse volgersi uno sguardo orante ed adorante con la posizione del corpo in ginocchio. Invece oggi talvolta l’elevazione non appare come un devoto atto di offerta e un invito alla contemplazione orante, fatto con “timore e tremore”, ma il celebrante si limita a mostrare le oblate ai fedeli tenendole più in basso del suo capo. Non si tratta più di una vera elevazione, di un vero atto religioso, ma di un’esibizione e per giunta affrettata, tanto che i fedeli non hanno neppure il tempo di guardare, contemplare, adorare, pregare, ammirare. Si alza e si abbassa l’ostia e il calice di scatto, con una sola mano, come si potrebbe fare per mostrare un bicchiere o una mela, mentre un tempo si usavano entrambe la mani con movimento lento e solenne, a significare la partecipazione e il concorso del nostro intero essere anima e corpo, ad un Mistero grande e di infinita maestà, Rex tremendae maiestatis, così come faremmo se avessimo in mano un dono preziosissimo da offrire ad un’altissima personalità. Sembra che ci sia in qualche celebrante una specie di paura o di ritegno ingiustificato, quasi un imbarazzo. Perché? L’eucaristia sembra a volte essere diventata un oggetto sì importante, ma in fin dei conti una cosa che si mostra per un momento un po’ come il negoziante mostra una stoffa o un prodotto che può interessare l’acquirente. Evidente perdita del senso del sacro e caduta nella profanità.
5. Scomparsa degli inginocchiatoi. Perché? Inginocchiarsi, fino alla prostrazione, in tutte le religioni è chiaro segno esterno dell’adorazione. È l’atteggiamento di chi implora, di chi supplica. Il fedele vuol mostrare la propria bassezza e miseria davanti alla maestà divina, similmente a come ci si abbassa o ci s’inchina davanti ad un dignitario o a un sovrano. Ancora mancanza del senso della trascendenza divina e del rispetto per il sacro. Dio diventa come uno di noi, uno uguale a noi, col quale si può trattare a tu per tu, dandogli ciò che ci piace e chiedendogli ciò che ci è utile.
6. Il saluto finale. Oramai capita spesso che dopo “la Messa è finita, andate in pace” si sentano aggiungere parole di saluto di tipo profano, come se si fosse al termine di una conferenza o di un comizio o di un qualunque incontro fra amici: “Buona sera! Arrivederci! Auguri!”. Invece lo ite, missa est aveva un alto significato sacro e religioso. Il termine “missa” è il participio passato di “mittere”: mandare, inviare: era l’assicurazione che l’offerta, cioè Cristo, è stata regolarmente inviata al Padre, un po’, mi si scusi il paragone profano, come avviene nel computer quando, dopo aver mandato un messaggio, esce l’avviso: “Il messaggio è stato inviato”. Già quindi quel “La Messa è finita” è di per sè una banalità, come se bisognasse informare i fedeli che la Messa è finita. L’aggiunta poi di quel “buonasera” rende ancora più banale il momento conclusivo che invece nelle antiche intenzioni della liturgia doveva essere un atto solenne e toccante, atto a stimolare gioia e speranza, come l’ultima rassicurante parola che il Mistero era compiuto, consummatum est, come a dire; “state tranquilli, siate lieti, l’offerta di Cristo è stata inviata al Padre, è giunto al Padre!”.
Sono piccole cose, me ne rendo conto, ma penso che possano essere, anche se non lo sono necessariamente, i sintomi di quella profanazione del sacro che tutti da tempo lamentiamo, sotto pretesto della “pastoralità”, e di renderci più attraenti ed interessanti, e invece finiamo per fare pietà o per disgustare chi ha il vero senso del sacro e della liturgia, con la conseguenza di diminuire più o meno gravemente la vera comunicazione della grazia e del significato e del valore del rito ed ottenere quindi scarsi per non dire nulli risultati spirituali. L’errore di fondo è, oltre alla riduzione del sacro al profano, l’idea che il sacro non basti ma debba essere integrato dal profano. Non ci si rende conto invece che la liturgia è un’azione sacra, dove il sacro basta a se stesso. Il profano può introdurre al sacro, mentre questo è fondamento del profano. Ma quando lo spirito è entrato nell’orizzonte del sacro, questo campeggia da solo senza bisogno di poveri ammennicoli come quelli che vengono dal secolo, per cui non occorre più il profano, esso deve restar fuori, così come quando il sole splende a mezzogiorno, non è necessario accendere una candela.
È il profano che ha bisogno del sacro e non viceversa. Si tratterebbe allora in fin dei conti nient’altro che di seguire fedelmente le norme ufficiali della liturgia. La Chiesa è la grande maestra del sacro e sa quello che fa. Siamo alcuni di noi preti che presuntuosamente vogliamo insegnare alla Chiesa sulla base delle nostre meschine “modernità” e non sappiamo quello che facciamo.
Libri consigliati sul tema di questo articolo:
Il fascino della Liturgia Tradizionale - Samuele Tamburini
Il sacerdote nella celebrazione Eucaristica - Mauro Gagliardi ed.
La centralità della liturgia nella storia della salvezza - Enrico Finotti
Liturgia fonte di vita - Mauro Gagliardi
Vaticano II 50 anni dopo - Enrico Finotti
Cattolici, in alto i cuori! - Paolo Pasqualucci
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