La disobbedienza dei superiori

Giuseppe Zenti vescovo di Verona
di Giovanni Cavalcoli
Gli anziani come me ricordano bene l’agitato, chiassoso e scomposto periodo della cosiddetta “contestazione” soprattutto giovanile degli ambienti universitari civili ma anche ecclesiastici della fine anni ’60, che vagamente e confusamente si richiamavano al Concilio Vaticano II scambiato per una specie di Rivoluzione Francese o palingenesi universale dell’umanità, ma con agganci anche ad altri pensatori sedicenti innovatori, come per esempio il teologo Harvey Cox o i “teologi della morte di Dio” per i credenti o il famoso sociologo Herbert Marcuse per i non-credenti e i cattolici sedicenti “aperti”, mentre i comunisti più o meno scopertamente soffiavano sul
fuoco o facevano da bordone con i soliti pretesti della liberazione dei lavoratori oppressi dal capitalismo.
È quel fenomeno diffusosi nel mondo occidentale, che è rimasto alla storia col nome di ’68, iniziato negli Stati Uniti all’Università di Berkeley e poi trapiantato a Parigi con l’ancora più famoso “maggio 1968”, dove si vedevano gli studenti dare l’assalto tra le barricate all’Università come i giacobini dettero l’assalto alla Bastiglia.
Io ho vissuto in pieno quel periodo perché allora mi trovavo a studiare filosofia all’Università di Bologna. Quello che allora maggiormente si notava, che turbava e preoccupava l’ambiente civile ed ecclesiale legato nella stragrande maggioranza a un certo rispetto per le autorità, abituato ad un comportamento sociale tranquillo ed ordinato, erano i frequenti ed impressionanti episodi di spavalda e tracotante disobbedienza e ribellione alle istituzioni della Chiesa e dello Stato, come erano per esempio in campo civile le manifestazioni di studenti all’Università che impedivano il regolare svolgimento delle lezioni, cortei di protesta per le strade urlando l’odio di classe sotto al spinta dell’estremismo comunista. 
Di lì a poco sarebbero iniziati i cosiddetti “anni di piombo” per l’azione sediziosa e criminale delle Brigate Rosse, mentre in campo ecclesiastico, anche se naturalmente non con tale violenza, analoghe manifestazioni di ribellioni a docenti e superiori, preti che dichiaravano nell’omelia della Messa di volersi sposare, teologi sorpresi nudi sulla spiaggia come fu il caso del famoso Edward Schillebeecxk, teologi come Karl Rahner, affiancati dalla tacita o velata complicità di alcuni Episcopati nazionali, i quali rifiutavano come sbagliato l’insegnamento di Paolo VI contenuto nell’enciclica Humanae Vitae.
Tutto ciò avvenne in nome del rinnovamento della cultura e dell’autonomia degli studenti nei confronti di quelli che allora si chiamavano i “baroni”, assai semplicemente gli insegnanti, sulla base di una concezione della cultura – ho vissuto in prima persona questi avvenimenti –, per la quale lo studente è perfettamente alla pari del professore, ossia non ha nulla da imparare da lui, soprattutto se si tratta di contenuti tradizionali, ma il rapporto studente-professore doveva limitarsi ad un “dialogo” nel quale, se lo studente poteva anche apprendere dall’insegnante, anche questi però doveva accettare quello che diceva lo studente. 
Nacque l’uso di interrompere l’insegnante durante la lezione per manifestare critiche e dissenso. Nei posti più educati invece l’intervento dello studente, come era già nell’antica tradizione della scolastica medioevale (le quaestiones quodlibetales), serviva a chiarire questioni anche per il bene della classe. S’introdusse la pratica dei cosiddetti “seminari di studio”, nei quali lo studente aveva una parte organizzativa facendo già tirocinio d’insegnamento nei confronti degli altri studenti, sia pur sempre assistito dal professore, qualcosa di simile al medioevale baccalaureus, uno studente intermedio fra il docente e il resto della classe. La grande rivoluzione sessantottina recuperava antiche tradizioni medioevali!
Tuttavia, in un clima di relativismo culturale, quale quello di allora e tipico della modernità, non erano generalmente ammesse verità oggettive comuni, ma i contenuti della cultura dovevano emergere dal “confronto dialettico” in continua evoluzione, dove ogni risultato, mai del tutto scontato, certo e definitivo, poteva sempre esser messo in discussione da quello successivo.
Naturalmente gli studenti in questa rivoluzione non avevano tutti i torti e non erano assenti autentici maestri e formatori e anche il ’68 non fu privo di aspetti positivi nel sottolineare la responsabilità e l’iniziativa personale dello studente nella propria formazione, mentre certamente idee nuove penetravano nel mondo dell’Università, più favorevoli ad una comunicazione tra studenti e docenti. 
Adesso non si doveva più sottostare all’insegnante come a un dio in terra, ma era ammesso proporre o anche imporre ai docenti alcune alternative o limitazioni di potere concordate attraverso trattative e nel reciproco rispetto. Allo studente venivano concesse facoltà di mutare anche i programmi per ragionevoli motivi. L’insegnante doveva tener maggior conto della considerazione nella quale era tenuto dagli studenti. E gli insegnanti più saggi e aggiornati rinunciavano a certi privilegi che consentivano loro di avere un eccessivo potere sugli studenti.
 Avvenivano comunque all’Università agitatissime e affollatissime riunioni di cinque o sei ore, fino alle cosiddette “occupazioni”, che duravano anche giorni, al termine delle quali, dopo una successione di martellanti e strillanti slogan marxisti, anarchici, maoisti e rivoluzionari, non si concludeva assolutamente nulla e chi pretendeva una conclusone certa e chiara appariva un reazionario, servo dei padroni. 
Quanto alla situazione ecclesiale, imparai molto dal libro di Maritain Le Paysan de la Garonne, nel quale egli, con dovizia di documenti e fine umorismo, denunciava il ritorno di un modernismo assai peggiore di quello dei tempi di S. Pio X, per una pretestuosa interpretazione del Concilio Vaticano II, che i neomodernisti facevano a loro vantaggio. Quasi nessuno ascoltò il grido di allarme del grande pensatore francese (che non fu il solo!) e per questo oggi ci troviamo nell’attuale situazione disastrata. E sì che Maritain non era un conservatore!
In mezzo a questa confusione e a questi disordini, trovai molta luce e conforto nella tradizione e nella dottrina della Chiesa, compresa quella conciliare e postconciliare. Ero un grande ammiratore di Papa Giovanni e Paolo VI. Proprio in quegli anni nei quali i sovversivi che si dichiaravano vittime dei baroni, preconizzavano una nuova società libera da qualunque autoritarismo, dove loro sarebbero stati i protagonisti e servi del popolo (i vari Capanna, Cohn-Bendit, Margherita Cagol, Toni Negri, ecc.), io studiavo Maritain, Gilson, Garrigou-Lagrange, S. Agostino, S. Bernardo, S. Bonaventura e S. Tommaso, insieme ai documenti della Chiesa con immensa gioia e frutto spirituale. Sentivo nella mia anima una perfetta consonanza e risonanza di quei sublimi insegnamenti e quindi la lealtà e l’onestà, la persuasività e la fondatezza delle loro motivazioni ed esposizioni.
Così maturò in me la vocazione domenicana ed entrai in convento a Bologna nel 1971. Fu allora che mi accorsi quanto il modernismo e la sovversione, sotto falso pretesto di “progresso”, avevano turbato e stavano turbando la Chiesa, dove avvenivano episodi di ribellione simili a quelli che stavano accadendo nella società civile, anche se certo non con la medesima violenza. Ma c’era una violenza più sottile: quella dell’inganno nel campo della fede e della teologia.
Nel contempo constatavo con sgomento il proliferare di errori tra teologi di grido senza che i vescovi intervenissero. Rari e inefficaci gli interventi di Roma. Erano presi solo i pesci piccoli. Ed io mi domandavo: come mai? Ma che ci stanno fare i superiori? In tal modo gli errori si spargevano a piene mani in tutti gli ambienti ecclesiali: dalla famiglia, alla scuola, negli ambienti di lavoro, nella cultura, nelle parrocchie, nei movimenti, nelle istituzioni accademiche, come un’alluvione fangosa che all’inizio di basso livello, poi cresce e cresce sino a salire ai piani superiori delle case. O, all’inverso, come una seduzione fascinosa che sempre più avvolge fino a far perdere la testa e l’oggettività dello sguardo.
O in altre parole: una “sporcizia”, come avrebbe detto Benedetto XVI trent’anni dopo, che giungeva a contaminare vescovi, superiori, docenti ed educatori, i quali o non si rendevano conto di cosa stava succedendo o lo consideravano con un sorrisetto di compatimento o non facevano niente per non dire che alcuni erano conniventi o nascostamente o apertamente. 
Certo Roma continuava sempre a essere il faro e il centro del comando. Ma mentre il faro continuava a illuminare – e questo come potrebbe non essere? – viceversa il comando diventava sempre più debole e disatteso da coloro stessi, collaboratori, pastori e superiori, che avrebbero dovuto trasmettere gli ordini alla base. E solo a questo titolo potevano esigere di esser obbediti a loro volta dai sudditi o dagli inferiori.
L’avvento di Giovanni Paolo II pose termine agli anni di piombo, all’espansione del comunismo ed  alle manifestazioni intraecclesiali plateali, eclatanti e violente contro la gerarchia, la Chiesa, il Papa e il Magistero. Ma non smise un lavoro o sotterraneo o anche palese da parte dei teologi e moralisti modernisti nel portare avanti il loro programma di secolarizzazione della Chiesa e le loro idee sovversive nella formare i giovani. 
Qui purtroppo il Pontificato di questo grande Papa non potè far nulla. Egli si dedicò con grande impegno e prodigiosa energia, senza risparmio di forze, a un’opera mondiale e spettacolare di evangelizzazione con i suoi numerosissimi viaggi e contatti con un’infinità di persone, ma dedicò assai poco tempo a uno studio attento ed approfondito come soltanto il Papa avrebbe potuto e dovuto fare, dei principali problemi dottrinali e morali della Chiesa, onde fornire quei rimedi che solo il Papa avrebbe potuto offrire, e a fornire la S. Sede di collaboratori competenti, coraggiosi e disinteressati, soprattutto nel campo della custodia della retta fede, sicchè il modernismo cominciò di soppiatto a penetrare anche nelle stanze dei bottoni.
Il Papa aveva sempre sulla bocca il problema dei giovani, e aveva con essi una grande capacità di contatto umano, ma purtroppo la formazione seminariale e accademica, nonché quella  degli studentati religiosi restava in gran parte nelle mani dei modernisti, per esempio i rahneriani. Quali preti e quali vescovi, quali educatori di giovani potevano uscire da questi formatori? Quale concetto dell’obbedienza potevano dare questi formatori, loro che per primi erano disobbedienti alla Chiesa? Lo vediamo oggi.
Cosa successe soprattutto verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II? Che quella debolezza di governo che si era cominciata a notare con Paolo VI, che parlava di “magistero parallelo”, aumentò ulteriormente e ci fu un vero salto di qualità.

Quale? Che fino ad allora la diffusione del modernismo, non repressa come si sarebbe dovuto fare, si era limitata alla sola contaminazione delle intelligenze, e quindi era rimasta ad uno stadio solo teorico, senza conseguenze nel governo della Chiesa, mentre d’altra parte i fedeli sudditi della Chiesa, teologi e buoni pastori,  godevano tutto sommato della libertà di confutare i modernisti e di diffondere la sana dottrina in obbedienza al Magistero, dando essi stessi esempio di obbedienza.

Invece, con la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, i modernisti cominciarono a raggiungere posti di potere sempre più numerosi ed elevati, dai quali potevano imporre con la forza e le minacce quelle idee modernistiche che avevano liberamente assorbito dai loro maestri negli anni o del seminario o della formazione religiosa o dell’Università, intralciando e fermando nel contempo il lavoro dei fedeli obbedienti al Magistero e al Papa, i quali hanno sempre più cominciato a sembrare dei “disobbedienti”, ma disobbedienti ovviamente non al Magistero ma ai superiori modernisti.

Così i sessantottini diventati vescovi o superiori si stanno mostrando ben più duri e autoritari dei vecchi “baroni”, che essi forse con sincerità avevano contestato da giovani, mentre i vescovi del preconcilio potevano essere sì severi, ma almeno lo facevano in nome della retta fede e dell’obbedienza alla Chiesa. Invece questi nuovi superiori, contrari all’inquisizione medioevale (del resto giustamente), hanno poi istituito clandestinamente una nuova inquisizione, senza alcuna ragione giuridica, ma basata solo sulla loro prepotenza, per imporre con la forza la linea del modernismo.

Così oggi avviene che quegli stessi che trenta o quarant’anni fa con arroganza e sicumera, dai banchi del seminario o dell’Università si ribellavano ai maestri accusati di autoritarismo reazionario, presentandosi come paladini della libertà dello studio, antesignani del progresso della cultura e del futuro della Chiesa, nonchè profeti delle “comunità di base”, adesso che hanno raggiunto il potere dopo infinite vergognose adulazioni e “obbedienze” ai maestri modernisti, considerano i loro propri comandi come precetti divini, disobbedendo ai quali piovono sul ribelle i più rigorosi castighi per aver offeso nel superiore la presenza di Cristo, quando loro stessi per primi se ne infischiano di Papi, di Santi e di Magistero, certi dell’impunità ed anzi coccolati da tutta l’ideologia laicista, massonica o modernista come uomini del dialogo, della tolleranza e del rispetto del diverso. 

I loro protetti sono personaggi intoccabili, per cui chi osa criticarli scandalizza i loro devoti, meglio dire fanatici, più che se un credente vedesse profanata l’eucaristia. Viceversa i buoni cattolici sono trattati come pezze da piedi col massimo dispregio, come dementi e indegni di qualunque risposta, anche perché tali superiori, non avendo argomenti seri, non sanno controbattere alle loro obiezioni.

Per quanto un suddito faccia presente con rispetto, lealtà e competenza difficoltà od obbiezioni alle direttive di questi superiori con riferimento alla dottrina della Chiesa o la Magistero del Papa, questi superiori non ascoltano ragione, come se il loro verbo fosse la verità assoluta e la via necessaria della salvezza, castigando questi sudditi che in realtà non desiderano altro che obbedire ad un superiore decente ed obbediente. Accade così che a chi disobbedisce alla Chiesa non capita nulla, ma a chi disobbedisce al superiore modernista… si salvi chi può.

Come uscire da questa situazione gravissima, da questo male spaventoso? Ormai le forze della disobbedienza autolegalizzata sono tali che la S. Sede e i buoni vescovi non sono assolutamente in grado di governare tale la situazione. 


Non resta che sperare in una resipiscenza dei responsabili, che in fin dei conti sono rivestiti quasi sempre di autorità legittima (non stiamo a verificare) e dovrebbero sapere qual è il loro dovere. Siano essi pronti ad ascoltare la loro coscienza e, rinunciando a ogni ambizione e smania di potere, vogliano, con l’ispirazione dello Spirito Santo e l’intercessione della Beata Vergine Maria, temere l’incombente castigo divino e, mossi da un sincero spirito di pentimento, esercitare la loro sacra missione con autentico spirito di servizio alla verità e al bene delle anime.

Per approfondire:
Giovanni Cavalcoli, Karl Rahner
Paolo Deotto, Sessantotto
Francesco Agnoli - Pucci Cipriani, 1968
Giovanni Zenone, A sinistra di Dio
Jean Madiran, La destra e la sinistra
Romano Amerio, Iota unum

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