di Giovanni Cavalcoli
Alcuni usano questi due termini indifferentemente in una comune condanna, quasi fossero sinonimi, ma è sbagliato o quanto meno è sconsigliabile, perché ciò comporta dei gravi inconvenienti. È vero che anche Papa Francesco di recente ha condannato un certo progressismo, ma ha avuto cura di aggiungere il significativo attributo “adolescenziale”, quasi a significare, al di là delle apparenze (i “cattolici maturi”), la sostanziale immaturità psicologica, culturale e spirituale di questa tendenza oggi assai forte nella Chiesa.
Alcuni usano questi due termini indifferentemente in una comune condanna, quasi fossero sinonimi, ma è sbagliato o quanto meno è sconsigliabile, perché ciò comporta dei gravi inconvenienti. È vero che anche Papa Francesco di recente ha condannato un certo progressismo, ma ha avuto cura di aggiungere il significativo attributo “adolescenziale”, quasi a significare, al di là delle apparenze (i “cattolici maturi”), la sostanziale immaturità psicologica, culturale e spirituale di questa tendenza oggi assai forte nella Chiesa.
Mi pare comunque conveniente
usare il termine progressismo anche in senso positivo, contro un certo
progressismo, che è quello condannato dal Papa, come corrente ecclesiale fautrice
di un falso progresso succube
della modernità. Però nessuno può negare l’importanza del progresso o del rinnovamento o della riforma nella vita cristiana e la legittimità della propensione di certi cattolici, di aver cura con particolare attenzione, pur nella fedeltà alla tradizione e nel rispetto dei valori immutabili, dell’avanzamento e del miglioramento nella conoscenza della divina Rivelazione, assumendo, alla luce della stessa Rivelazione e nella fedeltà alla Chiesa, quanto di buono c’è nel pensiero moderno, con la conseguenza di promuovere il miglioramento e la elevazione dei costumi cristiani con l’occhio puntato sulle mete ultime del cammino della salvezza.
della modernità. Però nessuno può negare l’importanza del progresso o del rinnovamento o della riforma nella vita cristiana e la legittimità della propensione di certi cattolici, di aver cura con particolare attenzione, pur nella fedeltà alla tradizione e nel rispetto dei valori immutabili, dell’avanzamento e del miglioramento nella conoscenza della divina Rivelazione, assumendo, alla luce della stessa Rivelazione e nella fedeltà alla Chiesa, quanto di buono c’è nel pensiero moderno, con la conseguenza di promuovere il miglioramento e la elevazione dei costumi cristiani con l’occhio puntato sulle mete ultime del cammino della salvezza.
Del resto, come è noto, questa
prospettiva di avanzamento, di riforma e di progresso nei termini suddetti, sia
nel campo del sapere teologico (aspetto dottrinale), che della condotta morale
(aspetto pastorale) è stata quella stessa del Concilio Vaticano II, come ci
hanno spiegato più volte i Papi del postconcilio sino all’attuale Pontefice
felicemente regnante.
Così le novità del Concilio non
sono da intendersi, come per esempio le ha intese la Scuola di Bologna, come rottura
col Magistero precedente, quasi che il Concilio abbia proposto un modello o
concetto di Chiesa sostitutivo di quello che in precedenza la Chiesa stessa
aveva presentato come immutabile dato di fede. Questo avvertimento ce lo hanno
dato tutti gli ultimi Papi, con particolare chiarezza Benedetto XVI, col dirci
come le novità, le riforme e il progresso promossi dal Concilio debbano essere intesi
non nel senso di una rottura, ma nella continuità con la dottrina e la morale
di sempre.
L’esegesi di rottura non è
propria solo dei modernisti, ma anche di quei tradizionalisti che si
rattristano della supposta rottura così come i modernisti se ne rallegrano. Ma
sbagliano gli uni e gli altri. Anche per quanto riguarda l’autorità delle
dottrine del Concilio, le due correnti, benchè da sponde opposte, danno in
ultima analisi la stessa interpretazione: il Concilio ha cambiato la dottrina
contraddicendo a quella precedente.
I modernisti non hanno
difficoltà a sostenere questa tesi, perché per loro la verità è mutabile e
relativa. Invece i tradizionalisti, che credono nell’immutabilità della verità
di fede, per negare obbedienza alle dottrine del Concilio e poterle accusare di
errore, si rifugiano dietro al fatto che il Concilio non definisce nuovi dogmi,
come se la verità delle dottrine del Magistero fosse limitata alle definizioni
dogmatiche solenni e il Magistero potesse negli altri casi errare, e la verità
dottrinale non riguardasse invece il semplice fatto che il Magistero tratta di
verità di fede o connesse alla fede, ci sia o non ci sia la definizione solenne
o ex cathedra.
Così similmente la Scuola di
Bologna si avvicina sorprendentemente alle posizioni di certi tradizionalisti
dando maggiore importanza ai dibattiti conciliari rispetto ai decreti finali,
comprese le costituzioni dogmatiche. Questa impostazione interpretativa
consente all’una e all’altro di sostenere che nei documenti del Concilio sono
contenute delle contraddizioni sia all’interno delle stesse posizioni del
Concilio sia rispetto al Magistero precedente. Su questo punto ha fatto
chiarezza Mons. Agostino Marchetto ricordando che i dibattiti conciliari hanno
semplicemente preparato i documenti
finali, per cui è sbagliato dare ai primi maggiore importanza che ai secondi.
Indubbiamente il Vaticano II ha
puntato molto sulla novità, ma questo nè ci deve scandalizzare né dev’essere il
pretesto di un atteggiamento modernistico. Le novità del Concilio sono in parte
dottrinali e in parte pastorali. Dal punto di vista dottrinale si tratta semplicemente
di un avanzamento o approfondimento o miglioramento della conoscenza di alcuni
dati della fede, come la liturgia, la Rivelazione, la Chiesa, i sacramenti, l’antropologia,
la morale, il dialogo, l’escatologia, la mariologia, i valori delle altre
religioni, la dignità della coscienza, il tutto in un confronto col pensiero moderno
per l’affermazione di una sana modernità o per un “aggiornamento” alla luce del
Vangelo.
Dal punto di vista pastorale, invece, il
Concilio ha promosso una riforma che tocca quasi tutti i punti della condotta cattolica
e su questo piano, dove la Chiesa non è infallibile, sono legittime in linea di
principio le osservazioni critiche e sono possibili e a volte utili o necessari
eventuali mutamenti o delle vere e proprie rotture con usi precedenti o disposizioni
rivelatisi sbagliati o dannosi.
Discutibile, al riguardo, per
non dire senz’altro insufficiente, appare il modello di vescovo presentato dal
decreto Christus Dominus, dove il vescovo
è descritto sì come uomo della carità, ma carente per quanto riguarda quell’energia
o parresia, della quale il vescovo ha bisogno per allontanare i lupi dall’ovile
di Cristo.
E dopo cinquant’anni di applicazione
del Concilio, i difetti di questo documento appaiono evidenti nell’essersi
diffusa una figura di vescovo che non sempre è capace di assicurare la disciplina
e l’ordine, e quindi la giustizia e la pace nelle comunità cristiane loro
affidate.
Questo difetto è strettamente legato
a un progetto di evangelizzazione –
compito precipuo del vescovo e che era pure uno degli obbiettivi massimi del
Concilio se non il massimo – nel quale, se da una parte è importante l’aspetto
del dialogo e dell’inculturazione, dall’altra è stato dannosamente abbandonato
il tradizionale aspetto combattivo e difensivo contro i pericoli del mondo, cadendo
in una visione ingenuamente e superficialmente ottimistica, come se tutto il mondo
non fosse altro che composto di uomini di buona volontà alla ricerca di Dio. Il
fatto che Papa Giovanni si indirizzasse agli “uomini di buona volontà” è stato
inteso dai modernisti come se tutti gli
uomini siano di buona volontà.
Il vescovo ha perso la consapevolezza
del suo dovere di proteggere il
gregge dai lupi - i lupi non esistono - ed è tutto e soltanto preoccupato di
piacere al mondo, in un contatto spesso caotico col mondo, come se dal mondo
non si potesse ricavare altro che del bene. Ciò ha favorito la deleteria teoria
rahneriana dei “cristiani anonimi”[1],
per la quale ogni uomo, per il semplice fatto di essere uomo, è in grazia di
Dio. Per Rahner, il mondo non si oppone per nulla alla Chiesa, ma alla fine
coincide con la Chiesa. Il mondo è già salvo senza saperlo (“esperienza
atematica”). Come insegna Rahner, la Chiesa non deve annunciare nulla che il mondo
non sappia già implicitamente ed inconsciamente, ma deve semplicemente rendere
cosciente il mondo del fatto che è in grazia di Dio e che tutti sono salvi.
Per Rahner il peccato si
annulla da sé[2]. Cristo
non espia il peccato (Rahner ha orrore del sacrificio cruento), ma semplicemente
ci annuncia con dolcezza che tutti siamo perdonati, perché Dio è
“misericordioso”. Tutti sono scusati e in fondo buoni. La cattiva volontà non
esiste[3].
Così sono rari i vescovi che,
come i grandi pastori del passato, sappiano da esperti medici dello spirito, indagare a fondo nelle miserie umane, con diagnosi accurate ed esatte, per evidenziare
le profonde radici del male e colpirlo a quel livello nelle sue origini ideologiche
e magari nei suoi influssi diabolici, ma la pastorale corrente si risolve quasi
sempre se non in generici richiami, che non disturbano nessuno, di tipo sociale,
amministrativo, finanziario o economico, che in fin dei conti sono poi più di
competenza dei politici che della Chiesa. Si dice che vi siano addirittura
vescovi che non credono nell’esistenza del diavolo.
Questo modello conciliare di vescovo,
ulteriormente aggravato anzichè corretto, proposto sistematicamente dappertutto
da cinquant’anni nella formazione seminariale, ha creato una moltitudine di pastori
deboli con i forti e forti con i deboli, incapaci di difendere la Chiesa dalle
insidie dei nemici, sicchè ora vale il lamento del Salmista sulla vigna del
Signore: “la devasta il cinghiale del bosco e se ne pasce l’animale selvatico”
(Sal 80,14).
Bisogna dunque urgentemente riformare
il modello del vescovo recuperando il suddetto aspetto tradizionale che, dovutamente
moderato, tanto frutto ha prodotto nell’evangelizzazione dei secoli passati, -
pensiamo solo al periodo postridentino - , pur con tutti i suoi limiti, senza
per questo dimenticare l’apporto conciliare di novità, esso pure fecondo di
buoni frutti.
Inoltre il Concilio con la dottrina
della collegialità episcopale, che poi ha dato luogo ad una nuova concezione
della Chiesa locale e all’istituto dei sinodi mondiali e delle conferenze
episcopali nazionali, ha finito con l’indebolire l’autorità della S.Sede e reso
troppo indipendente l’episcopato dalla guida del Papa. La conseguenza, ormai sotto
gli occhi di tutti, è che da decenni il Papato è isolato, e non ha la forza
sufficiente per farsi obbedire, a cominciare dagli stessi vescovi.
Anche qui è urgente una riforma,
a partire dalla Curia Romana, la quale riforma, senza per nulla diminuire la dignità
e l’autonomia del vescovo, restituisca al Papa il prestigio necessario per
realizzare una guida effettiva della Chiesa sul cammino che conduce al regno di
Dio. Quello che il Papa insegna da
cinquant’anni con soprannaturale saggezza deve poter essere fatto mettere in
pratica e non cadere nel vuoto.
Ma più in radice questa riforma
non sarà sufficientemente giustificata finchè non si saranno eliminati gli errori
che la impediscono e conducono nella direzione opposta, di marca chiaramente
protestante, per non dir di peggio. Mi riferisco alla dottrina rahneriana del sacerdozio, dei sacramenti e della liturgia[4],
la quale dà fondamento teologico all’insufficiente concezione del vescovo che è
alla base della dottrina conciliare. Naturalmente il Concilio non erra nella dottrina
dogmatica concernente l’episcopato. Qui l’errore è solo di Rahner. Tuttavia il
modello pratico proposto dal Concilio ben si sposa con l’errata visione rahneriana.
La Chiesa nella storia sempre
si rinnova - Ecclesia semper reformanda
- e propone il nuovo, ma è quel nuovo che discende dalla novità evangelica. Accusarla
di modernismo, pertanto, vuol dire non aver capito niente delle novità apportate
dal Concilio. Per questo, il nuovo nella storia della salvezza e quindi nella
storia della Chiesa - renovabis faciem
terrae - non è necessariamente da respingere solo perché è nuovo, magari in
nome della tradizione e dell’immutabilità del vero. Altrimenti non avremmo ragione
di parlare di Nuovo Testamento e neppure di “Vangelo”, dato che il termine
significa una “buona novità”.
Lo stesso dicasi del moderno,
il quale certamente non è buono solo perché è moderno, ma che si suppone che in
linea di massima sia buono, se è moderno, purchè, s’intende, sia sanamente
nuovo. Infatti nel moderno e nel nuovo ci può essere e il buono e il cattivo. Il
buon senso ci comanda di non rifiutare il nuovo e il moderno come tali, ma semplicemente
di prendere il buono e rifiutare il cattivo. Si deve respingere il cattivo moderno,
il che è il modernismo; non il moderno come tale, e qui sta il difetto di un cattivo
tradizionalismo.
Così il nuovo che la Chiesa ci
presenta lungo i secoli negli insegnamenti dei Papi e dei Concili non aggiunge
e non cambia nulla nel sacro e immutabile deposito della divina Rivelazione affidato
da Cristo agli apostoli e conservato nella sacra tradizione e nel Vangelo. Ma
questo nuovo non è altro che un modo più chiaro, approfondito ed esplicitato di
comprendere la medesima verità eodem
sensu eademque sententia. Un “nuovo” che smentisse il precedente o che fosse
concepito secondo un modo relativistico, soggettivistico o evoluzionista della
verità, come è avvenuto nel modernismo, non ha niente a che vedere col nuovo propostoci
dal Concilio Vaticano II e dal seguente Magistero, che in questi cinquant’anni
si è sforzato di spiegarci, interpretarci e svilupparci.
Tradizionalismo e progressismo
rettamente intesi non possono essere assolutamente occasione o motivo di divisioni
nella Chiesa, né costituiscono un’alternativa assoluta come tra il bene e il male,
il vero e il falso, ma, come ci insegnano gli stessi sociologi, rappresentano
come la sistole e la diastole del cuore di qualunque normale società umana, per
cui questa dialettica non può e non dev’essere assente nella vita della società
ecclesiale.
Infatti, quando queste due tendenze
restano nell’alveo dei princìpi costituzionali di una data società e non fuoriescono
da essi né si pongono con essi in contrasto, si completano a vicenda nella costruzione
del bene comune, nel mantenimento, nello sviluppo, nella libertà e nel sano pluralismo
della medesima società.
E ogni membro componente la società,
a seconda della proprie preferenze o propensioni, è libero e dev’esser libero
di collocarsi nello schieramento che sente più congeniale senza dover essere emarginato
o sentirsi schernito, insultato, diffamato o intralciato dalla corrente opposta.
Ognuna delle due correnti resta nella legalità e rende un servizio al bene comune
a patto che non assolutizzi se stessa demonizzando l’altra, ma rispetti le
opinioni dell’altra pur nella promozione della propria.
La speranza della Chiesa di
oggi è che assieme possiamo giungere a rispettare e a promuovere il vero bene
comune della Chiesa, fondato sull’accoglienza integrale della sana dottrina, in
una fedeltà intelligente al suo Magistero, in ascolto di ciò che lo Spirito
dice alle Chiesa” (Ap 2,7).
P. Giovanni Cavalcoli,OP
Fontanellato, 25 novembre 2013
Due libri indispensabili per capire l'origine dell'eresia rahneriana:
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[1] Vedi il mio libro edito
da Fede & Cultura “Karl Rahner”. LA RADICE TEORETICA DELLA DOTTRINA
RAHNERIANA DEL CRISTIANESIMO ANONIMO, in Fides Catholica, 2, pp.289-314;
ripubblicato in: Karl Rahner – Un’analisi
critica – La figura, l’opera e la
recezione teologica di Karl Rahner (1904-1984), a cura di Padre Serafino
M.Lanzetta, Ed.Cantagalli, Siena, pp.51-71
[2] Tema, questo, già proprio della
dialettica hegeliana: il negativo annulla il negativo.
[3] Così oggi non è infrequente il caso di
“penitenti” che entrano in confessionale per elencare le loro opere buone, per
assicurare che “ce la mettono tutta”, per dire che “non hanno nessun peccato” e
che “non hanno fatto niente di male”. Non sono affatto pentiti, ma fieri di
quello che hanno fatto, dispiaciuti solo dei torti che ricevono dagli altri. In
fatto di peccati “non sanno che cosa dire”. Semmai hanno commesso semplicemente
dei “peccati normali” che non destano alcuna preoccupazione. Al massimo,
qualche “sbaglio involontario”.
[4] IL CONCETTO DI
SACERDOZIO IN RAHNER, ne Il sacerdozio
ministeriale: “L’amore del Cuore di Gesù”, a cura di P. Stefano M. Manelli,
FI e P. Serafino M. Lanzetta, FI, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV), 2010,
pp.183-230.
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