di Francesco Agnoli (Il Foglio 14 giugno 2012)
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L’Ungheria di oggi è assediata dal totalitarismo relativista della Ue, che non tollera che le idee e i valori che hanno fondato l’Europa, sopravvivano e tentino, qua e là, di non recedere sempre dinnanzi alla cultura nichilista. Ebbene, gli ungheresi possono vantare in questo secolo un grande personaggio, che può fornire loro le armi concettuali opportune per una sana resistenza. Mi riferisco a Padre Stanley Jaki, benedettino ungherese nato nel 1924 a Gyor e morto a Madrid nel 2009. Laureato in teologia e in fisica, Jaki si è dedicato per quarant’anni agli studi di storia e di filosofia della scienza. In Italia i suoi libri sono editi da Fede & Cultura, cui dobbiamo la pubblicazione postuma de “I fondamenti etici della bioetica” (2012), una pregevole raccolta di articoli e di conferenze tenute in particolare presso la Società
Ungherese di Bioetica di Budapest.
Jaki nota anzitutto che siamo in un’epoca in cui non esiste più il concetto di Verità. Né una verità rivelata, né una verità condivisa. Chi non crede ai valori non negoziabili si appella alla consuetudine, o alla democrazia, ma, come è inevitabile, “nelle società democratiche moderne sembra che si stia indebolendo persino il consenso sulla saggezza dell’inchinarsi al volere della maggioranza, per non offrire spazio all’anarchia, che è dietro l’angolo”. Il passo successivo alla messa ai voti di principi che non possono essere sottomessi ai voleri delle maggioranze, rimane solo il volere del singolo. La tirannia del capriccio personale. Per questo i cristiani sono diventati per Jaki “gli ultimi difensori dei diritti umani, nella misura i cui questi diritti riguardano l’uomo vero, e non solo una sua contraffazione biologica o sociologica”.
Jaki ricorda che era così anche all’origine del cristianesimo, quando i Minerva e i Giubilino, moderni fautori dell’infanticidio, dal pulpito delle riviste scientifiche di oggi, si potevano richiamare a Platone, Aristotele, Seneca e chi più ne ha più ne metta. Già allora l’apologeta Atenagora ricordava ai suoi oppositori: “Obbediamo alla ragione e non tentiamo di prevalere su di essa”, mentre Tertulliano, difendendo la vita nascente, scriveva: “Non sentite forse un fremito di vita nel feto dentro di voi? Non vi trema il ventre, non si scuotono i fianchi, non vibra il vostro intero stomaco quando il fardello che voi portate cambia posizione? No sono questi momenti una sorgente di gioia e di rassicurazione che il bambino dentro di voi è vivo e giocoso?”.
Allora come oggi, continua Jaki, spesso i cristiani non erano compresi. Nonostante gli strumenti moderni dimostrino che Atenagora e Tertulliano avevano ragione. In quegli strumenti, infatti, molti non vogliono guardare, per non dover ammettere, quanto all’embrione umano: “Eppur si muove”; non vogliono guardare, intenti a fondare la moralità né sulla realtà, né sulla rivelazione, ma “sui desideri personali o sui sondaggi d’opinione”.
Anche le terribili fotografie degli aborti, molto usate in America dai movimenti pro life, vengono bandite dalla cultura dominante, non perché non vere, ma perché troppo evidenti: “L’unico argomento, certamente molto naturale, che riesce ad incrinare quella freddezza (degli abortisti) è una foto a colori di un embrione umano macellato. Nessuna meraviglia che questo tipo di immagini sia vigorosamente denunciato come brutale, insensibile e disgustoso. La logica, naturalmente, è mandata gambe all’aria quando l’insensibilità protesta in nome della sensibilità”.
Dopo vari ragionamenti e considerazioni, Jaki propone i fondamenti di una bioetica cristiana, intesa non tanto come una morale della vita limitata ai cristiani, appunto, ma come qualcosa di universalmente valido, dal momento che Cristo ha svelato, all’uomo, la sua vera natura. Scrive: “Non ci dovremmo cullare nell’illusione che la moralità possa essere ottenuta per mezzo della legislazione. La moralità al massimo può essere difesa legalmente, ma solo se la maggioranza della popolazione ha delle convinzioni morali e le traduce in legge”. Per questo “una pre-condizione alla bioetica cristiana è la formazione di cristiani. In altre parole, il futuro della bioetica è in funzione del futuro dell’evangelizzazione”: questo in considerazione del fatto che l’uomo in grazia di Dio è quello che, come diceva Atenagora, obbedisce alla ragione e non si oppone ad essa.
Conclude Jaki: “Noi cristiani tagliamo il ramo sul quale stiamo seduti se lasciamo che la religione sia trattata come una pratica che non implica la forma più alta di ragionamento”. Quali dunque i fondamenti della bioetica cristiana? Anzitutto la consapevolezza che non si può parlare di dignità umana se non considerando l’immortalità personale. Se non fossimo altro che materia, al pari di un sasso, non esisterebbe alcuna particolare dignità (“non esiste né un’etica degli atomi, né un’etica delle galassie”). In secondo luogo il concetto di peccato: esso ha valore “solo se esiste un bene assoluto”. Chi non crede nel Bene, non crederà nel peccato, e viceversa. Infine il sì di Maria, “affermazione suprema della vita e della sua difesa, che unisce insieme il naturale e il soprannaturale”.
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